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Che cosa ha sussurrato Di Maio a Wang Yi sulla rete 5G

Le parole del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, al suo omologo cinese Wang Yi sul 5G analizzate dagli esperti del settore

“L’Italia è aperta a ogni possibile investimento funzionale alla crescita e all’occupazione. Ma sempre in linea con gli standard di sicurezza nazionale e in relazione alla collocazione euro-atlantica del nostro Paese”.

Lo ha spiegato ieri il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, nell’incontro avuto a Roma con il suo omologo cinese Wang Yi.

Che cosa significato queste parole?

Dice un analista che segue nelle istituzioni il dossier: “”Cara Cina, scordatevi qualsiasi ipotesi di ingresso di Huawei nel backbone infrastrutturale 5G italiano”, è stato questo il messaggio dell’Italia alla Cina sulla realizzazione della rete di quinta generazione”.

Si conferma dunque che nella serie di norme italiane sul 5G non c’è un vero e proprio ban di stampo trumpiano – come quello auspicato nella relazione finale del Copasir sul 5G – ma nel complesso le disposizioni tecniche poste alle aziende di tlc in Italia alle forniture di società extra Ue – ovvero cinesi, dunque Huawei e Zte – è talmente irto di procedure, paletti, vincoli e richieste che di fatto è un ostacolo di fatto al coinvolgimento di Huawei nella realizzazione della rete di quinta generazione in Italia.

D’altronde è quello che – secondo gli addetti ai lavori – si evince dal Dpcm relativo a Tim approvato il 7 agosto dal consiglio dei ministri.

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ESTRATTO DI UN ARTICOLO DEL SOLE 24 ORE

Quindici condizioni per utilizzare tecnologia Huawei sulla rete 5G. Le ha imposte il governo a Tim per quattro contratti relativi all’acquisto di apparati di accesso radio, con relativa manutenzione e fornitura di licenze e supporto specialistico. Non è un veto alla temuta strumentazione cinese, ma una sequenza di paletti piuttosto stringenti per limitarne i rischi in termini di cybersecurity. L’interpretazione, in base anche alla lettura politica, può essere duplice: è la definitiva rinuncia a mettere al bando Huawei, ipotesi caldeggiata dagli Stati Uniti, o è un modo per emarginare gradualmente il fornitore cinese rendendo sempre più difficile utilizzarne gli apparati? Di certo sorprende che il Dpcm (decreto della presidenza del consiglio) sia stato approvato dal consiglio dei ministri del 7 agosto senza che il comunicato stampa ne facesse riferimento. E che il testo in qualche modo sia circolato solo ieri, all’indomani dell’incontro tra il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’omologo cinese Wang Yi. È rilevante anche che il Dpcm sottolinei come Tim abbia assicurato che sarà la società europea Nokia il fornitore dei nodi di rete nella regione Friuli Venezia Giulia, dove ha sede la base di Aviano usata dall’aeronautica degli Stati Uniti.

Tra le 15 condizioni spicca l’obbligo di una clausola contrattuale che, pena risoluzione, imponga a Huawei e a Tim di non comunicare ad autorità governative estere, quindi alla Cina, informazioni e dati acquisiti in relazione all’operazione. Obbligatorio anche mettere a disposizione del comitato di monitoraggio di Palazzo Chigi i codici sorgente e i disegni hardware dei componenti ed effettuare, anche tramite terzi, processi di verifica e controllo. Tim dovrà anche elaborare un piano di diversificazione dei fornitori. Ulteriori prescrizioni si riferiscono al registro del personale, ai test di sicurezza da effettuare almeno ogni sei mesi, al ruolo della funzione aziendale Security. Tim dovrà inviare alla presidenza del consiglio una relazione sulle misure adottate entro la prima settimana di ottobre e successivamente ogni sei mesi.

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