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Che cosa dirà Pompeo in Africa. Il Punto di Orioles

Mosse e contraddizioni degli Stati Uniti in Africa. La missione di Pompeo nell’approfondimento di Marco Orioles Comincia oggi con la prima tappa in Senegal il tour nell’Africa subsahariana del Segretario di Stato Usa Mike Pompeo, che in poco più di una settimana visiterà anche Angola ed Etiopia per poi trasferirsi in terra araba dove sarà…

Comincia oggi con la prima tappa in Senegal il tour nell’Africa subsahariana del Segretario di Stato Usa Mike Pompeo, che in poco più di una settimana visiterà anche Angola ed Etiopia per poi trasferirsi in terra araba dove sarà ricevuto dai leader di stretti partner dell’America come Riad e Muscat.

È una visita che si consuma all’insegna di una vistosa contraddizione nella politica estera dell’amministrazione Trump, che se da un lato punta a rafforzare la cooperazione con i paesi africani al fine di contrastare la crescente penetrazione nel continente da parte del rivale cinese, dall’altro lato tarda a implementare la strategia africana varata proprio a tal scopo oltre un anno fa dall’ormai ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton (qui la cronaca che ne fece Start Magazine) e coltiva, per giunta, l’intenzione di riportare a casa buona parte dei soldati schierati in un teatro come quello subsahariano piagato da una sempre più cieca violenza jihadista.

Questa discrasia tra le intenzioni e i fatti è ben evidenziata dai 19 lunghi mesi trascorsi dall’ultima volta in cui un alto esponente dell’amministrazione Trump si prese la briga di salire su un aereo per attraversare l’oceano e sbarcare in Africa. Risale infatti al luglio 2018 il viaggio del Segretario al Commercio Wilbur Ross in Etiopia, Kenya, Costa d’Avorio e Ghana, dove prese l’impegno – di cui poi si sono perse le tracce – di investire un miliardo di dollari in progetti del settore privato.

Prima di Ross, a passare da quelle parti ci aveva pensato il primo Segretario di Stato di Trump, Rex Tillerson, la cui iniziativa non portò però molta fortuna al suo protagonista, licenziato in tronco da The Donald poche ore dopo aver rimesso piede negli States reduce da Etiopia, Gibuti, Kenya, Ciad e Nigeria.

È su questo sfondo di incoerenza pericolosamente confinante con l’indifferenza che si inserisce l’odierna missione di Pompeo, che a partire da oggi avrà l’occasione di chiarire la posizione degli Usa prima con il presidente senegalese Macky Sall e il titolare degli Esteri Amadou Ba, per passare successivamente all’ascolto del presidente dell’Angola Joao Lourenco e del suo ministro degli Esteri Manuel Augusto Monday, e chiudere nei due giorni seguenti con il faccia a faccia con il presidente ed il primo ministro d’Etiopia, Sahle-Work Zewde e Abiy Ahmed, cui farà seguito il bilaterale con il n. 1 dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat.

Quanto a concretezza, gli argomenti che Pompeo illustrerà ai suoi interlocutori per convincerli che l’America non sta volgendo lo sguardo dall’altra parte sono rappresentati anzitutto dagli 800 milioni di dollari stanziati nel budget del 2021 per finanziare una nuova agenzia governativa, la Development Finance Corporation, creata appositamente per sostenere progetti di sviluppo del settore privato.

Si tratta, come sottolinea ABC, di una somma più che tripla rispetto a quella allocata dal governo Usa nel precedente anno fiscale (229 milioni di dollari). Che tuttavia va messa sul lato sinistro di un libro dei conti dove, nel lato destro, sono segnati i tagli netti ai piani di assistenza umanitaria (dove quest’anno mancheranno oltre 3 miliardi rispetto ai precedenti stanziamenti) e persino a quelli per la lotta all’AIDS, decurtati di ben il 26%.

Il biglietto da visita con cui Pompeo si presenta al cospetto dei leader africani non sembra dunque né allettante né degno, si potrebbe dire, di un colosso economico come gli Usa che, dopo aver guidato per lungo tempo la classifica dei paesi donatori nonché di quelli che destinano investimenti al disperato bisogno di sviluppo del continente africano, rischiano ora di perdere posizioni – e credibilità – in una regione dove la Cina invece fa passi da gigante.

Ed è esattamente quest’ultimo tema che Pompeo avrà modo di approfondire con i suoi colleghi. A dei leader in affannosa ricerca di investimenti, il Segretario avrà modo di spiegare – come tende a fare ossessivamente, in coro coi colleghi, da quando è in carica – il pericolo insito nell’affidarsi ai pur generosi capitali cinesi. Pericolo che assume, come sappiamo, la forma delle ormai famose “trappole del debito”: un’espressione che non è ignota in posti come l’Angola, nei cui confronti Pechino vanta un credito di 25 miliardi di dollari che al momento viene restituito sotto forma di carichi di greggio.

Il problema, per Pompeo, è che per l’Africa non esistono molte alternative agli yuan. Come spiega Ahmadou Aly Mbaye, docente di economia all’Università senegalese di Cheikh Anta Diop, l’Africa sconta non solo i sempre più striminziti aiuti allo sviluppo dei paesi ricchi, ma anche i limiti dei programmi delle istituzioni finanziare globali come la Banca Mondiale o il FMI. Il risultato, è la conclusione dell’accademico, è che “se togli la Cina, non rimane praticamente nulla”.

Ma c’è una seconda insidia nel viaggio di Pompeo e si ricollega a un’impostazione degli Usa diversa rispetto a quella della Cina: la tendenza a condizionare gli investimenti a precisi impegni politici da parte dei Paesi beneficiari, costretti a varare non solo riforme economiche in chiave liberale, ma anche a tutelare lo Stato di diritto e combattere la corruzione.

La battaglia per chi ha più influenza in Africa, insomma, vede gli Usa in posizione di svantaggio rispetto ad un rivale che ha l’evidente pregio, agli occhi dei suoi interlocutori, di farsi gli affari propri nel mentre riversa danaro a pioggia.

E non c’è solo la Cina. A cercare di addomesticare l’Africa c’è anche la Russia, che sta mettendo le mani un po’ ovunque sulle immense risorse naturali del continente venendo ricambiata con  cospicue commesse in armamenti.

Per rispondere alla potenza di fuoco del Tesoro cinese, e a quella dell’industria delle armi di Mosca, Washington dovrebbe dunque, come minimo, affrettare l’implementazione del piano Bolton per l’Africa che fu varato nel dicembre 2018 sotto i migliori auspici e con il preciso intento di recuperare posizioni in un continente dove Cina e Russia galoppano.

L’America tuttavia non solo non sembra affatto sul punto di imprimere tale accelerazione, ma sta lanciando segnali contrari su un altro campo che sta molto a cuore all’Africa subsahariana: la sicurezza.

Si rincorrono da mesi le voci di una forte riduzione del personale militare Usa – forte di circa seimila uomini – attualmente schierato in Africa sotto la guida dell’U.S. Africa Command. Una decisione che non trova tutti d’accordo nelle fila dell’amministrazione (in particolare l’assistente di Pompeo per gli affari africani, Tibor Nagy, particolarmente inquieto per la situazione ormai fuori controllo nel Sahel) e soprattutto preoccupa paesi come il Senegal, il cui presidente Sall ha parlato senza troppi giri di parole di un grave “errore” degli Usa che i popoli africani non comprenderebbero.

L’errore evocato da Sall assume anche la veste del paradosso nell’interpretazione che ne offre il ricercatore della Brookings Institution di New York, Michael O’Hanlon. Al quale risulta incomprensibile (“makes very little sense”) la decisione di azzoppare il dispositivo militare Usa in Africa specialmente se giustificata con la necessità – statuita sin dalla stesura, oltre due anni fa, della National Security Strategy dell’amministrazione Trump – di concentrarsi sulla deterrenza nei confronti dei maggiori rivali geopolitici degli Usa, ossia Cina e Russia.

Se, infatti, l’obiettivo supremo della superpotenza è davvero contrastare i disegni geopolitici di Mosca e soprattutto Pechino, l’Africa è, per le ragioni che abbiamo appena illustrato, l’ultimo posto da cui l’esercito Usa dovrebbe tirare i remi in barca.

Nel Sahel, peraltro, la situazione è realmente a rischio: i 4.500 uomini che la Francia vi ha schierato nella cornice dell’operazione Barkhane stanno faticando non poco a contenere la furia dei militanti islamisti che passano ormai da una strage all’altra.

La sola idea che gli Usa possano ritirare il proprio sostegno logistico all’operazione, abbandonando i francesi e i loro protetti al loro destino, è qualcosa che in Africa sperano sia solo un incubo passeggero come il ciclone trumpiano che ha sconvolto priorità e obiettivi della politica estera americana.

Quella che comincia oggi, insomma, è una missione che richiederà a Pompeo di esibire tutte le sue doti diplomatiche per rassicurare leader in cerca di soluzioni ai non pochi problemi che attanagliano i rispettivi paesi. Dovrà, in breve, spiegare loro che, per quanto apparentemente convenienti, la soluzione cinese e quella russa non sono nel loro interesse.

Dipenderà dalla solidità degli argomenti che Pompeo metterà sul tavolo  la possibilità di convincere Paesi cui, com’è noto, il verbo della democrazia, del diritto e del libero scambio fa meno presa di lauti prestiti e armi letali concessi da potenze senza scrupoli.

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