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L'uscita di scena del ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, potrebbe dunque preludere a un rafforzamento delle fazioni ultra-conservatrici, e, in politica estera, a un’affermazione della visione “militarista” dei pasdaran. L'analisi di Annalisa Perteghella, research fellow dell'Ispi
A pochi giorni dal quarantesimo anniversario della rivoluzione, in Iran si apre una crisi politica. Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha rassegnato le proprie dimissioni. Lo ha annunciato ieri sera, poco prima di mezzanotte ora iraniana, con un post su Instagram nel quale si scusava per il fatto di non essere più in grado di servire il Paese.
Il presidente della repubblica Hassan Rouhani, in un discorso pubblico tenuto questa mattina, ha ribadito il sostegno verso il ministro, pur non menzionando apertamente né un’accettazione né un rifiuto delle sue dimissioni. La mossa potrebbe in realtà essere un tentativo di sbloccare una serie di situazioni in cui il ministro, e con lui l’ala politica dei moderati, è vittima di una sfiancante opposizione da parte degli ultra-conservatori, e reclamare il potere nelle mani del ministero degli Esteri.
Secondo alcune fonti il motivo delle dimissioni di Zarif sarebbe l’incontro, avvenuto nella giornata di ieri a Teheran, tra la Guida suprema Ali Khamenei e il presidente siriano Bashar al-Assad. All’incontro, a cui non era presente Zarif, era invece presente il generale Qassem Soleimani, comandante delle brigate al Qods dei pasdaran e responsabile del dossier siriano. Ma l’episodio è solamente l’ultimo di una serie di scontri di potere – una dinamica politica piuttosto normale per la Repubblica Islamica – che vede protagonisti il campo dei moderati e quello degli ultra-conservatori.
Secondo alcune fonti, Zarif avrebbe rassegnato le dimissioni in aperta protesta contro la propria esclusione dal vertice tra Khamenei e Assad tenutosi ieri a Teheran. Dopo una tale esclusione, affermano queste fonti, con quale credibilità Zarif può continuare a esercitare il ruolo di ministro degli Esteri?
Eppure, la gestione della crisi siriana è sempre stata – fin dallo scoppio della crisi nel marzo 2011 – oggetto di un braccio di ferro tra il potere esecutivo (in particolare il ministero degli Esteri) e quello militare (in particolare le brigate al Qods dei pasdaran, responsabili delle operazioni all’estero). Questi due poteri sono egualmente rappresentati all’interno del Consiglio supremo di sicurezza nazionale, che è tradizionalmente sede di accesi dibattiti.
Dopo la “vittoria” dell’ala militare, e la conseguente decisione di intervenire militarmente in Siria a sostegno di Assad, anziché spingere il presidente siriano ad aperture nei confronti dei manifestanti come invece avocato dall’ala esecutiva, è divenuto chiaro che il dossier siriano era stato ufficialmente “appaltato” alle Guardie della rivoluzione. In un secondo momento, e in corrispondenza di uno sforzo bellico eccessivo tanto per le casse quanto per la reputazione del Paese, il ministero degli Esteri ha avuto lo spazio di manovra necessario per il lancio di un’iniziativa diplomatica (la partecipazione al cosiddetto processo di Astana), per la ricerca di una soluzione negoziata alla crisi. La presenza del solo Soleimani, generale dei pasdaran, all’incontro con Assad di ieri, sarebbe dunque indicazione del nuovo sopravvento preso dall’ala militare sulla gestione del dossier siriano, e il gesto di Zarif un aperto segnale di indisponibilità ad accettare questa situazione.
A incidere è anche il durissimo scontro in corso da mesi tra moderati e ultra-conservatori, o, potremmo dire, tra due opposte visioni del Paese e delle sue relazioni con il resto del mondo. Da una parte il campo politico dei moderati, a cui appartiene Zarif. Il ministro, oltre a essere l’artefice dell’accordo sul nucleare, è l’avvocato dell’engagement con l’Europa e l’occidente (anche con gli Stati Uniti, a condizione di essere trattati con rispetto). Dalla parte opposta, chi considera l’apertura del Paese all’occidente una potenziale e pericolosa snaturazione dei valori rivoluzionari, e il compromesso sul nucleare una svendita al ribasso della sovranità nazionale.
Non è un mistero che la firma dell’accordo abbia incontrato fin dai primi tempi a Teheran una certa opposizione da parte di chi accusava Zarif di essere sceso a patti con “il Grande Satana”, di avere ceduto il programma nucleare – fonte di prestigio nazionale, nonché strumento di deterrenza – in cambio di benefici economici incerti. Opposizione che però, ottenuto il beneplacito della Guida suprema Khamenei all’accordo, era stata in qualche modo silenziata. Negli scorsi mesi queste voci si sono riaccese e si sono fatte sempre più forti: l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo, con la reintroduzione delle sanzioni, ha di fatto lasciato Teheran da sola ad adempiere ai patti: la permanenza di Russia, Cina e Unione europea nell’accordo poco vale di fronte alla portata globale delle sanzioni statunitensi, che hanno causato lo stop degli accordi e la fuga dal Paese dei tanti che erano accorsi a investire.
L’Iran finora ha tenuto fede ai propri impegni – è di qualche giorno fa l’ennesimo annuncio dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica che ribadisce come Teheran sia ancora in pieno adempimento dell’accordo – ma sono in molti ormai a domandarsi a che pro. Il destino delle dimissioni di Zarif sarà quindi cruciale per il destino dell’accordo: l’uscita di scena del ministro lascerebbe l’accordo orfano del suo padrino ma soprattutto del suo più strenuo difensore a Teheran; al contrario, una sua conferma al ministero degli Esteri potrebbe conferirgli nuovo capitale politico per difendere la necessità di proseguire l’engagement con l’Europa.
Ma quella sul nucleare non è l’unica battaglia di Zarif in questi mesi. L’altro grande fronte dello scontro tra moderati e conservatori è la lotta per l’approvazione della normativa su anti-riciclaggio e contrasto al finanziamento del terrorismo, in adeguamento alle richieste del Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale (GAFI/FATF) – organismo intergovernativo creato nel 1989 in ambito OCSE con lo scopo di definire e promuovere strategie di contrasto del riciclaggio.
Da mesi, a Teheran è in corso un dibattito accesissimo circa l’approvazione delle nuove normative, necessaria a fare uscire l’Iran dalla “blacklist” del GAFI, facilitando così il suo ritorno sul mercato finanziario internazionale. Anche in questo caso, lo scontro è tra opposte fazioni, e si traduce in scontro inter-istituzionale: da una parte il governo guidato dal presidente Hassan Rouhani, che preme per l’approvazione delle riforme in accordo con le richieste FATF, dall’altra gli ultraconservatori che siedono nel Consiglio dei guardiani, l’organo giuridico incaricato di vagliare e approvare gli atti legislativi del parlamento, che ritengono invece la normativa troppo intrusiva e lesiva della sovranità nazionale.
L’uscita di scena di Zarif farebbe segnare un punto agli ultra-conservatori, un punto che potrebbe essere sufficiente a vincere la battaglia. Ma una sua riconferma significherebbe una piena manifestazione di fiducia nei suoi confronti, e dunque un maggiore capitale politico per i moderati, da spendere per sbloccare i dossier fondamentali, e quello sul GAFI/FATF è uno di questi.
Dall’accettazione o meno delle dimissioni di Zarif dipenderanno le evoluzioni della politica interna iraniana dei prossimi mesi (ricordiamo che nel 2020 si terranno le elezioni parlamentari; nel 2021 quelle presidenziali), ma anche e soprattutto delle relazioni tra l’Iran e l’Europa. L’uscita di scena di Zarif priverebbe il governo di Rouhani, oltre che di un abilissimo diplomatico, di un profondo conoscitore dell’Occidente.
La sua uscita di scena potrebbe dunque preludere a un rafforzamento delle fazioni ultra-conservatrici, e, in politica estera, a un’affermazione della visione “militarista” dei pasdaran. E se le motivazioni delle dimissioni sono da ricercare nelle dinamiche di politica interna, è difficile non riconoscere il ruolo giocato dalla politica di “massima pressione” di Trump. Ma il cambiamento che il presidente statunitense cerca a Teheran potrebbe non essere quello auspicato.
Estratto di un articolo pubblicato su ispionline.it