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Giorgetti

Vi racconto il tafazzismo del centrodestra sul presidenzialismo

Che cosa ha combinato il centrodestra sul presidenzialismo. I Graffi di Damato

Quei 41 deputati del centrodestra – dico quarantuno in lettere, come negli assegni, non due o tre, o tredici, o venti – che con le loro assenze, al netto di una ventina di giustificate, hanno voluto far battere Giorgia Meloni dal cosiddetto centrosinistra nella votazione in aula sul presidenzialismo, col risultato di 236 voti contro 204, non sono astuti. Che, ripetendo in quantità maggiore quanto già accaduto in commissione, hanno forse voluto dare una “lezione” alla leader della destra, cresciuta troppo nelle urne e nelle ambizioni di governo, sino a proporsi per Palazzo Chigi nella prossima legislatura. In realtà essi hanno solo segato il ramo dell’albero su cui è seduta la coalizione inventata da Silvio Berlusconi nel 1994, peraltro pasticciosamente, vestita diversamente al Nord e al Centro-sud.

Di questo passo, fra risse o sgambetti locali, e presunte astuzie, vendette e manovre nazionali, di posti di governo – né alti né bassi, né poltrone né strapuntini – non ce ne saranno per nessuno nel centrodestra. Né, se ce ne saranno per la mancata vittoria anche del Pd di Enrico Letta e del suo “campo” più o meno largo, potranno essere di lunga durata, dovendosi prevedere in questo caso una legislatura ancora più anomala e infernale di questa cominciata nel 2018 con la “centralità “dei grillini e sviluppatasi con tre maggioranze diverse, due delle quali contrapposte. La terza, alquanto ibrida, è sopravvissuta solo per le emergenze prima del Covid e poi della guerra in Ucraina scatenata da uno scriteriato Putin per prevenire – ha avuto appena il coraggio di dire nella piazza rossa di Mosca – un attacco della Nato alla Russia per interposta Ucraina, appunto.

Era talmente reale e pericolosa questa ipotesi di lavoro, diciamo così, che non appena avuta certezza dell’attacco russo, dalla Nato e personalmente da Biden, il terribile e cinico Biden, giunse al presidente ucraino Zelensky il suggerimento di scappare in esilio ben protetto, lasciando quindi a Putin e alle truppe russe libertà d’invasione e di conquista. Invece Zelensky decise di rimanere al suo posto, senza tradire il 70 per cento del popolo che lo aveva eletto nel 2019 al vertice dello Stato, e chiese aiuti anche militari agli occidentali per compiere il suo dovere, oltre che diritto, di difendersi e contrattaccare. Questa, e solo questa, è la realtà di quanto è accaduto, per non parlare del resto, cioè degli eccidi compiuti dalle truppe russe e persino – come si è appena scoperto- dell’abbandono dei loro soldati caduti negli automezzi refrigeranti. Era evidentemente troppo impopolare in patria il ritorno delle salme e la loro sepoltura, fra le lacrime di troppi familiari delusi, a dir poco, del loro “zar”.

Che cosa c’entra tutto questo su cui mi sono dilungato – mi chiederete – col centrodestra e con la sua crisi confermata dal suicidio parlamentare sul presidenzialismo, vecchio tema di battaglia della destra? Dove già dagli anni Sessanta si veniva spregiativamente classificati, e chiusi a chiave, a pensare e a parlare di elezione diretta del Capo dello Stato o di “Nuova Repubblica”. Così capitò persino ad un antifascista doc come Randolfo Pacciardi, battutosi in armi nella Spagna contro il generale Franco. Non parliamo poi di quello che sarebbe accaduto al socialista Bettino Craxi aprendo alla Repubblica presidenziale. Persino Giorgio Forattini sulla Repubblica di carta saldamente diretta dal fondatore Eugenio Scalfari avrebbe cominciato a rappresentare il segretario del Psi con gli stivali e a testa in giù, come Mussolini a Piazzale Loreto. Poi, ma molto poi, il vignettista se ne sarebbe pentito.

La guerra in Ucraina c’entra eccome con la crisi del centrodestra perché neppure su di essa le sue componenti sono riuscite a trovarsi d’accordo dopo la linea del forte contrasto a Putin adottata dal presidente del Consiglio Mario Draghi, e peraltro approvata quasi all’unanimità dal Parlamento. Quel Salvini pappa e ciccia con Giuseppe Conte, come all’epoca della maggioranza gialloverde, ma questa volta contro la pretesa degli ucraini -pensate un po’- di resistere davvero e a lungo a Putin e persino di batterlo con gli aiuti occidentali, fa veramente del centrodestra un baraccone. Nel quale, viste anche certe ambiguità forziste, salva la faccia, ma dall’opposizione, solo la “conservatrice” e atlantista Giorgia Meloni, forse penalizzata anche per questo nella battaglia presidenzialista di fine legislatura. Una battaglia solo nominalistica, di facciata, per i tempi ormai stretti della legislatura, ha detto il parlamentare e costituzionalista del Pd Stefano Ceccanti. Ma proprio per questo è risultato più disonorevole il boicottaggio di quei 62 del centrodestra a Montecitorio, fra ingiustificati o in missione galeotta. Un suicidio, ripeto, politico e forse anche elettorale, considerando sia le amministrative di giugno sia il rinnovo delle Camere l’anno prossimo, o prima ancora.

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