Caro direttore,
Antonio Polito è qualcosa di più di un giornalista meritatamente famoso, è anche uno dei depositari della continuità della tradizione di via Solferino. Quando, incuriosito dal titolo, un po’ qualunquista, del suo editoriale di sabato scorso (“La politica che non c’è”) l’ho letto, sulle prime non l’ho quasi riconosciuto: una serie di critiche scontate ai partiti di opposizione sullo spunto dei sondaggi di Pagnoncelli, condite con la citazione colta di rigore (di questi tempi in via Solferino si porta volentieri Calvino), la “scoperta” che per i farmaci in Europa dipendiamo da Cina e India: tutto scritto col talento e l’eleganza di Polito, ma apparentemente senza capo né coda. Solo nelle ultime otto righe, precedute di poco da un “D’altra parte, Giorgia Meloni e il centrodestra non possono certo tirare un sospiro di sollievo”, si legge: “É bene che tutti ricordino che cosa accadde al governo Berlusconi, che pure aveva stravinto le elezioni del 2008 ed era guidato da un premier sulla cresta dell’onda come mai prima. Fu una crisi internazionale, quella dei debiti sovrani innescata dalla Grecia proprio quindici anni fa, ad aprire la crisi e a determinarne la fine”. Proprio tutti, Polito?
Puntuale, un lettore invita Aldo Cazzullo a riprendere l’argomento e nella risposta domenicale la chiave qualunquista è predominante e l’”avviso di sloggio” a Meloni di Polito ignorato, secondo una consolidata divisione dei ruoli. “Che sorpresa!” dirai tu a questo punto. Ma se te ne ho parlato, è solo per ricordarti un altro avviso di sloggio, di 11 anni fa, indirizzato a Matteo Renzi, all’epoca premier, a mezzo di editoriale di Ferruccio De Bortoli (“Devo essere sincero: Renzi non mi convince”, così esordiva De Bortoli collocando il venenum anziché sulla coda, come d’uso, orgogliosamente sul capo). In via Solferino, plus ça change, plus c’est la même chose…
Neppure ho la pretesa di rispondere al ben poco intrigante interrogativo sul dove sia finita la politica. É una questione ancora più vecchia e scontata dell’asserita scoperta sulla nostra dipendenza dalle filiere cinesi e indiane per i farmaci. L’evanescenza della politica, scusami se ripeto un’ovvietà (ma non lo è, forzatamente, né per i tuoi amici di via Solferino né per quelli delle altre testate mainstream) dipende da tante cose, ma di sicuro, “strutturalmente”, è conseguenza dell’avvenuto trasferimento alle strutture burocratiche governate dal vertice della Ue del potere di incidere, con meccanismi decisionali estremamente opachi, sulla vita quotidiana dei popoli d’Europa. Quando si legge su una rivista gloriosa come il Mulino, in un saggio sull’astensionismo elettorale dei sociologi Vittorio Mete e Dario Tuorto, che “È sì importante parlare delle persone che non vanno a votare, ma ben più importante è parlarne cogliendo la complessità, e la diversità, delle caratteristiche che le accomunano” senza che gli illustri studiosi mai si chiedano, nemmeno per sbaglio, se per caso non siano venute meno le ragioni oggettive del voto che oggi si esercita – scusa il bisticcio – nel vuoto, cascano le braccia.
Del resto, se i media mainstream (ti parlo solo del Corriere per economia di tempo e di spazio) si sono dati per missione di tenere sotto scacco Meloni per dare all’establishment che da Bruxelles percorre tutta la filiera tecnocratica e burocratica degli Stati membri Ue il tempo e il modo di far maturare un’alternativa, essendo scontato che in Europa non sono graditi governi di destra (a scanso di equivoci nella filiera suddetta, direttore, ci metto buona parte della classe politica, progressista e non solo, buona parte dei vertici istituzionali e prima ancora gli operatori dei media mainstream), è inevitabile che nelle redazioni si cucini ossessivamente, in tutte le salse, la deplorazione del sovranismo (qualunque cosa sia), l’emarginazione del populismo (di destra), la denuncia dell’egoismo dei nazionalismi, con l’indispensabile dose di codice penale cui provvedono le prodi avanguardie del cosiddetto potere giudiziario (il cui garante – te lo ricordo ad ogni buon fine, direttore – anche nella vicina République è il presidente, ma senza gli elaborati filtri che da noi ne fanno un vertice più simbolico). Dal suo insediamento alla Casa Bianca il menù comprende anche dosi non proprio modiche di invettive all’indirizzo di Donald Trump, che si aggiungono a quelle riservate allo “zar” Putin e ad altri leader “autoritari” (Erdogan, salvo transitorie situazioni eccezionali, solitamente viene risparmiato, il che è il minimo della decenza, visti i miliardi che attraverso l’imbuto di Bruxelles gli abbiamo versato in tutti questi anni).
Tutto questo, direttore, non devi intenderlo come una critica al quotidiano di Cairo, che rimane il meno peggio del gruppetto dei quotidiani mainstream (e lo stesso mi sento di dire del tg di Mentana). Il fatto è che oggi la vita è durissima per i media mainstream, che dovrebbero raccontare un periodo di grande e diffusa insoddisfazione, preoccupazione e sconcerto di una classe media in via di crescente proletarizzazione, e invece non possono che rispondere con dosi massicce di qualunquismo travestito da sensazionalismo, materializzato -come sempre – con la costruzione di nemici, “secondo le disponibilità del mercato”, sicché c’è la volta del politico-regista-romanziere Walter Veltroni che dà il suo contributo coniando il “Trusk” che combinava (geniale…) il nome del presidente autoritario con quello del suo alleato Musk (ora ex) altrettanto autoritario e per di più straricco che però, in quanto “nemico del nostro nemico” è diventato amico, secondo la pensosa formulazione di un importante intellettuale progressista, David Parenzo de La zanzara; c’è la volta dell’editorialista Carlo Verdelli che attribuisce a The Donald la responsabilità della “frantumazione dell’Europa, il vecchio continente delle democrazie , e la sua conseguente perdita di centralità in qualsiasi scelta internazionale”. Che prima di Trump alla Casa Bianca l’Unione europea fosse un modello di compattezza e un protagonista delle “scelte internazionali”, non me n’ero accorto, mi ricordo semmai di un famoso “Europa fottiti” dell’ambasciatrice Usa a Kiev Victoria Nuland, incassato con taciturna disinvoltura dall’Europa di dieci undici anni fa. In ogni caso, se non fosse colpa di Trump sarebbe colpa della scarsa “volontà unitaria” dei governi nazionali. Che ci sia qualche vizio di impostazione nella “costruzione europea” non si dice e soprattutto non si deve pensare: il catechismo ha le sue esigenze.
Perché di questo volevo parlarti, del catechismo mainstream. C’è una notizia. Se uno degli uomini oggettivamente più potenti d’Italia, il Ceo dell’Eni Claudio Descalzi, ha sentito il bisogno di confidare a The Financial Times di odiare il politically correct e il mainstream, insomma di avvisare a sua volta che “non se ne può più” è – azzardo un’interpretazione – perché i media mainstream hanno ormai superato la fase della “propaganda”, l’agire occulto per persuadere (vulgo manipolare) che fa parte della vita, per entrare nella fase del catechismo, della ripetizione, insofferente di qualsiasi contraddittorio e dichiaratamente prescrittiva, del verbo. Sarà un caso, direttore, che l’intervista di Descalzi, su media che gonfiano solitamente all’inverosimile eventi trascurabili, sia passata quasi inosservata?