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Giustizia penosa

Il caso Open Arms-Salvini insegna che la politica non può più farsi dettare l'agenda dall'uso politico della giustizia. La nota di Paola Sacchi.

Al netto di una polemica tutta di carta tra Meloni e Salvini ora sul ministero dell’Interno, in una narrazione mainstream che a ogni sonora sconfitta della sinistra anziché analizzarne le cause è pronta a rilanciare alla ricerca acrobatica comunque di qualche piccola crepa di pre-crisi governativa, la sentenza di Palermo mette sotto i riflettori in tutta la sua urgenza la riforma della giustizia. Per arginare l’invasione di campo dell’uso politico della giustizia, da parte di certa magistratura politicizzata con la sponda ormai trentennale della sinistra.

Il punto non è tanto se Salvini, assolto su Open Arms perché il fatto non sussiste, la formula più piena possibile, voglia legittimamente tornare a fare il ministro dell’Interno, premesso che ha tenuto a precisare che in ogni caso questo lavoro “viene svolto benissimo” da Matteo Piantedosi, suo ex capo di Gabinetto al Viminale nel governo Conte/1. No, il punto è che Salvini se non ci fosse stato il processo di Palermo molto probabilmente starebbe ancora al Viminale.

L’uso politico della giustizia e la sinistra che ha fatto da sponda a certa magistratura mandandolo a processo, come questa vicenda nettamente dimostra, ha avuto quindi oggettivamente un peso determinante anche nella formazione dello stesso governo Meloni di centrodestra nato con un programma che mette tra i punti principali proprio la riforma della giustizia, con la separazione delle carriere. Le riserve, si disse, del Quirinale, di tutto l’establishment e anche una certa timidezza da parte della coalizione che ha vinto le elezioni politiche, la stessa timidezza dimostrata anche sul caso Toti (seppur casi diversi, anche in Liguria alla fine sempre certe toghe con la sinistra hanno stabilito il calendario delle Regionali anticipate) hanno impedito che Salvini, poiché era sotto processo, tornasse a fare il ministro dell’Interno. Pur avendo dalla sua parte i numeri della più alta riduzione di sbarchi e di conseguenza di morti nel Mediterraneo.

Palermo insegna che la politica non può più farsi dettare l’agenda dall’uso politico della giustizia. Oltre che non è da Paese civile, da stato di diritto la vera e propria “character assassination” cui è stato sottoposto il leader della Lega, attuale vicepremier e ministro di Infrastrutture-Trasporti.

Chi risarcirà lui e altri che magari non hanno avuto, invece, la possibilità di avere un avvocato del calibro di Giulia Bongiorno? È la domanda che Salvini ha subito posto, rilanciando sulla responsabilità civile dei magistrati. È ora che tutto il centrodestra si muova più compatto, senza piccole rivalità e gelosie interne, e soprattutto senza eccessive timidezze sulla riforma della giustizia. Che comprenda anche l’eliminazione della possibilità di appello dopo una sentenza come quella di Palermo per cui “il fatto non sussiste”. Perché certa magistratura non sia più determinante persino nella formazione di un esecutivo o nel calendario delle Regionali.

Nordio, ministro della Giustizia, è stato durissimo: “Quel processo non si sarebbe dovuto proprio fare”. Parole che ora attendono un seguito concreto.

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