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Caso Khashoggi: dove e come si possono incrinare le relazioni Trump-bin Salman

L'approfondimento di Marco Orioles sullo stato dei rapporti fra Stati Uniti di Trump e Arabia Saudita di bin Salma alla luce del caso Khashoggi

L’incredibile vicenda che ha visto come protagonista, suo malgrado, il giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi – sequestrato, torturato, trucidato e fatto a pezzi da uomini molto vicini al vertice della corte dei Saud nel consolato di Istanbul – rischia di mandare in frantumi il saldo e ben oliato rapporto tra l’Arabia Saudita e l’amministrazione Trump. Compromettendo due anni di stretta collaborazione e di gestione consensuale di una serie di dossier roventi.

Potenziare l’asse Washington-Riad è stata la carta che The Donald e i suoi più stretti consiglieri hanno, sin dagli albori del loro governo, messo sul piatto della partita mediorientale, con l’intento di stravolgere gli equilibri dell’area – attraverso molteplici scossoni assestati su più livelli – e plasmare un’inedita “pax arabica” di cui l’Arabia Saudita sarebbe stata l’architrave, prendendo con ciò il posto degli Stati Uniti sempre più avviati verso un disimpegno da un’area che nelle ultime due decadi ha generato più problemi che opportunità per l’ex gendarme del mondo.

L’intera politica mediorientale dell’amministrazione Trump è stata disegnata su misura del ruolo, e del protagonismo, dell’Arabia Saudita. Dalla Siria all’Iraq, all’Iran, allo Yemen sino all’eterno conflitto israelo-palestinese, i piani delineati alla Casa Bianca hanno fatto affidamento sulle capacità di manovra, di intervento e di influenza della prima superpotenza del Golfo.

In questo gioco, Mohammed bin Salman, l’uomo forte di Riad, ha svolto la funzione al tempo stesso di garante e volano. Da quando è diventato l’artefice numero uno delle trame elaborate negli opachi palazzi di Riad, il principe ha sgomitato non poco per proiettare all’interno e all’esterno l’immagine di un Paese in fase di repentina trasformazione, pronto ad avviarsi sulla strada della modernità economica e culturale e ad assumere la guida del mondo arabo. L’Arabia Saudita di Mbs non a caso oggi si muove nel quadrante come una potenza politica, diplomatica, economica e militare di prim’ordine che, in tandem con l’alleato di ferro degli Emirati Arabi Uniti, non si fa scrupoli a flettere i muscoli per piegare le resistenze dei più riottosi e punire chi osa remare contro.

In Siria ed Iraq, nei territori in cui fino all’anno scorso imperversava lo Stato Islamico e che gli Stati Uniti hanno liberato con invidiabile efficacia militare, l’Arabia Saudita è stata delegata da Washington a gestire le complesse fasi della stabilizzazione post-conflitto. La concessione di generosi finanziamenti ai luoghi devastati dal gruppo jihadista è la via scelta da Riad, sotto dettatura da parte degli strateghi di Washington, per riportare un barlume di stabilità e assicurarsi che, nel prossimo futuro, vi sia da parte delle popolazioni interessate una benigna predisposizione nei confronti dell’Arabia Saudita e del suo sponsor occidentale. Uno sforzo effettuato in un contesto reso quanto mai ostico dall’azione di potenze rivali come la Russia, l’Iran e la Turchia che hanno tutto l’interesse a far fallire il disegno elaborato dagli alleati americano e saudita.

La collaborazione strategica tra Stati Uniti e Arabia Saudita si fa ancora più palese nel caso della questione palestinese. Il piano di pace “definitivo” che il consigliere e genero di Trump, Jared Kushner, sta cesellando in gran segreto si impernia proprio sul ruolo affidato a Riad quale garante dello scambio tra statualità palestinese e sicurezza di Israele. Nelle intenzioni americane, l’Arabia Saudita ha il compito di accompagnare l’intero mondo arabo verso il riconoscimento dello Stato di Israele quale contropartita per la concessione da parte di Gerusalemme dell’autogoverno ai territori palestinesi. Un do ut des che, non a caso, ricalca il piano elaborato quindici anni fa dai sauditi, e che ora torna in vita in un contesto reso più favorevole dall’allineamento tra le esigenze di sicurezza di Israele e quelle del mondo arabo, ambedue minacciate dalle ambizioni egemoniche di Teheran.

Ed è proprio in nome del contrasto ai disegni iraniani che l’asse Riad-Washington si rinsalda fino a farsi d’acciaio. Donald Trump ha deciso di cancellare gli sforzi di appeasement verso Teheran condotti dal suo predecessore Barack Obama, ricollocando l’Iran nella casella tradizionale di arci-nemico degli interessi americani. Una torsione a 180 gradi che ha fatto tirare un sospiro di sollievo in Arabia Saudita, dove l’establishment mal aveva digerito l’accordo nucleare del 2015 tra Usa, Iran e altre quattro potenze mondiali che sdoganò la Repubblica Islamica, riaprendone il ricco mercato energetico e iniettando nelle casse dello Stato le risorse necessarie per portare avanti una politica estera aggressiva e avventurista.

La ferrea volontà americana di contrastare le azioni di Teheran in Medio Oriente non sarebbe concepibile senza la disponibilità di Riad di farsi carico in prima persona di questo compito. In Yemen – uno dei teatri in cui questo scontro tra titani si palesa e si surriscalda – è l’Arabia Saudita, insieme all’alleato emiratino, a condurre le operazioni militari con cui si sta cercando di sloggiare da Sana’a il gruppo ribelle degli Houthi che è universalmente considerato un proxy dell’Iran. Prossima a girare la boa dei quattro anni, la guerra nel paese più povero del mondo arabo vede i destini del gigante a stelle e strisce e dell’Arabia Saudita strettamente intrecciati, non ultimo per il sostegno from behind che l’esercito americano sta fornendo agli sforzi militari alleati. Le rimostranze della comunità internazionale per le vittime civili del conflitto hanno finora trovato orecchie sorde a Washington, dove il sostegno alla campagna saudita-emiratina è considerato un buon viatico per sferrare, direttamente e indirettamente, un colpo mortale all’Iran.

Per Washington, l’Arabia Saudita rappresenta anche una pedina imprescindibile nella strategia elaborata per riportare a più miti consigli, tramite le sanzioni, gli ayatollah. Se l’obiettivo delle misure punitive americane è azzerare l’export petrolifero di Teheran, questo obiettivo non è perseguibile senza la cooperazione di Riad, chiamata a rimpiazzare con le sue riserve l’offerta di greggio che verrà a mancare. Mai strategia americana è stata subordinata in modo così stringente alla disponibilità di un alleato.

Insomma, l’abbraccio tra Riad e Washington è completo, ma è ora messo a repentaglio dall’indignazione globale per la sorte riservata a Jamal Khashoggi. Molto dipenderà da come Mbs si districherà tra la necessità di esibire le mani pulite e quella di additare al mondo dei colpevoli del delitto. Se la versione che Mbs elaborerà per spiegare una vicenda indicibile sarà ritenuta sufficientemente credibile, l’alleanza con Washington potrebbe superare la prova. Ma è concreto il rischio che, anche in presenza di una versione spendibile in termini di public relations, si apra una crepa nel rapporto.

Già alte si levano le voci dei parlamentari americani che invocano un cambio di passo da parte dell’amministrazione Trump. Il candidato alla Casa Bianca e senatore repubblicano Marco Rubio parla apertamente dell’affaire Khashoggi come di una “catastrofe” destinata ad “alterare le relazioni” tra Arabia Saudita e Usa “nel futuro prevedibile”. Ancora più esplicito è il senatore democratico Cris Murphy, per il quale il caso del giornalista scomparso “dovrebbe innescare una revisione della natura dell’alleanza degli Stati Uniti con i sauditi”. Persino un alleato di ferro di Trump come il senatore repubblicano LIndsey Graham avverte il dovere di sottolineare che, a suo avviso, “Mbs ha macchiato il proprio paese e sé stesso”, rendendo difficile la prosecuzione dei rapporti come se nulla fosse.

A Washington, insomma, l’asse con Riad scricchiola. E potrebbe essere la prima vittima illustre del delirio di onnipotenza di Mbs. Del principe che voleva cambiare la faccia del Medio Oriente, e invece si è trovato con una gatta da pelare che rischia di mandare in frantumi due anni di dialogo strategico con la Casa Bianca di Trump.

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