Non sarà stato un complotto, ma certo ne ha tutta l’aria. Il caso Almasri non finisce di stupire, avendo dato origine ad una valanga di imprevedibili conseguenze; sia sul piano interno che nei suoi riflessi internazionali. Organismi, come la Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aia, per funzionare hanno bisogno di un contesto internazionale che legittimi la loro funzione. Soprattutto che non si agitino come schegge impazzite, nel tentativo di perseguire obiettivi che saranno anche giusti in astratto, ma destinati, in concreto, ad essere irraggiungibili. Storicamente hanno sempre operato al margine, per risolvere problemi di natura eccentrica rispetto agli equilibri fondamentali, che hanno regolato gli assetti fondamentali della geopolitica. Tant’è che i principali depositari del potere politico contemporaneo – USA, Russia e Cina – non ne fanno parte. In passato. il processo di Norimberga, fu un’eccezione: resa possibile non dalla sconfitta ma dalla distruzione fisica della Germania nazista. Emettere, oggi, in un momento in cui la fluidità delle relazioni internazionali è così elevata, mandati d’arresto nei confronti di personaggi come Vladimir Putin o Benyamin Netanyahu, è come sparare alla luna. È qualcosa che non rientra nella sfera di potere di un semplice magistrato, per quanto titolato esso sia, che, per operare, ha bisogno di una forza statuale che non è nella sua disponibilità. Principi da tenere a mente nel valutare gli ultimi avvenimenti che riguardano l’intero affaire del generale libico.
Ma queste – si potrebbe obiettare – sono considerazioni di carattere politico. Al magistrato spetta solo applicare la legge. Più che giusto. Ma è stato questo il comportamento della Corte? In base all’articolo 89 del suo Statuto, “una richiesta di arresto e di consegna” rivolta ad uno “Stato parte” deve avvenire secondo le “disposizioni” dello Statuto stesso e le “procedure previste dalla legislazione nazionale” dello Stato, che ne risulta coinvolto. Invece la Corte si è comportata diversamente. Non ha inoltrato la richiesta al Guardasigilli, il Ministro Carlo Nordio, che in base all’articolo 2 della legge 237 del 2012 ha il compito di “curare in via esclusiva” i relativi rapporti, “di ricevere le richieste provenienti dalla Corte e di darvi seguito”, ma direttamente alla Corte d’appello di Roma.
Quali le possibili ragioni? Un banale errore da parte della Corte? Suscettibile tuttavia di dare origine ad un vizio di forma. Ed in diritto la forma è simulacro di garanzia. Altro che “cavillo giudiziario” come ha scritto La Stampa. Una scarsa fiducia nei confronti del responsabile di Via Arenula? Dovuta sia al colore politico dell’attuale Governo che alla provenienza di quest’ultimo dai ranghi della magistratura. L’aver infine scelto provocatoriamente una procedura fasulla, proprio per mettere in difficoltà il Governo italiano? Ipotesi quest’ultima che potrebbe trovare riscontro nelle successive polemiche da parte della stessa Corte contro l’Italia: accusata di non aver rispettato gli obblighi di cooperazione che derivano dai Trattati. Accuse da respingere al mittente, proprio alla luce del Trattato.
Non spetta a noi rispondere. Facciamo solo domande. Sta di fatto però che l’articolo 7 della legge precedentemente richiamata stabilisce che “qualora il Ministro della giustizia, previa intesa con i Ministri interessati, abbia motivo di ritenere che la consegna di determinati atti o documenti ovvero l’espletamento di attività di indagine o di acquisizione delle prove possano compromettere la sicurezza nazionale, la trasmissione dei documenti ovvero l’espletamento delle predette attività sono sospesi.” Non esiste, pertanto, alcun automatismo tra la richiesta di intervento e la sua esecuzione. Ma assoluta discrezionalità da parte dell’Esecutivo nel valutare preventivamente le conseguenze politiche di ogni possibile decisione.
È stato forse questa preoccupazione il motivo dell’inerzia dimostrata dalla Corte nel perseguire lo stesso Osama Almasri? Le cronache raccontano la sua lunga permanenza in Europa (Francia, Germania e Belgio), quando l’interesse della Corte verso il libico risaliva allo scorso ottobre. L’Interpol, invece, si attiva solo il giorno prima (17 gennaio) della sua partenza verso Milano, giusto in tempo per assistere alla partita di calcio tra la Juve ed il Milan. Sebbene la sorveglianza fosse stata continua, al punto da segnalarne, con largo anticipo, i relativi spostamenti. All’indomani è fermato in Piemonte, per un controllo di routine, ma la Corte penale dell’Aia non ha ancora emesso il mandato di cattura, che sarà trasmesso solo il giorno successivo. Giusto in tempo per consentirne l’arresto, secondo quell’anomala procedura che prevedeva di bypassare il Ministro competente, per rivolgersi direttamente all’Autorità giudiziaria italiana. Con la conseguenza di restringere enormemente i tempi – 48 ore – dell’eventuale riflessione politica, di cui all’articolo citato, nell’eventualità di una sanatoria delle “procedura irrituale” seguita. Trascorso quell’intervallo infatti l’imputato, come poi è avvenuto, sarebbe stato rimesso in libertà.
Naturalmente tutto ciò può essere stato solo conseguenza del caso. Fascicoli lasciati per lungo tempo a dormire e poi, all’improvviso – cogli l’attimo! – divenuti incandescenti. Circostanze temporali che tolgono la patata bollente dalle mani di alcuni Stati europei, per lasciarla nelle mani di altri. Regole statutarie che vengono ignorate e principi legislativi che sono violati, per negare la discrezionalità che è componente fondamentale di quella “ragion di Stato” che le relative norme volevano tutelare. Tutto possibile, anche se poco credibile.
Meglio allora pensar male e far peccato, come era solito dire Giulio Andreotti. Specie se in ballo sono gli equilibri di una regione così strategica, come il Medio Oriente. Dove le vecchie Potenze imperialiste – soprattutto Francia e Gran Bretagna – hanno lasciato una eredità talmente pesante, da essere rifiutata dalla maggior parte delle relative popolazioni. E dove la presenza italiana ha conquistato uno spazio così importante: dall’Egitto (giacimento di gas naturale di Zohr, in collaborazione con l’Eni), alla Tunisia (con i ripetuti accordi sui migranti), dalla Libia stessa (nonostante alle difficoltà legate alla presenza di altre potenze, come Turchia o Russia) all’Algeria (tornato ad essere il primi fornitore di gas) o al Marocco, il più solido alleato dell’Occidente, in quel quadrante
Ebbene quando c’è di mezzo la Libia, due sono gli asset strategici di quel Paese: il petrolio ed il controllo dell’immigrazione. Contro Mu’ammar Gheddafi, che allora la governava, fu scatenata una guerra, condotta dalla NATO su istigazione soprattutto francese (sulla base di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza proposta da Stati Uniti, Francia, Libano e Regno Unito), per difendere una delle tante “rivoluzioni arabe”, alimentate dai riflessi in loco dalla Global Financial Crisis. Ma, di fatto, sostenute da filiazioni dei Fratelli musulmani, come in Egitto o in Tunisia. Silvio Berlusconi, cercò di opporsi, ma in quel momento (era il 2011) la sua debolezza poté poco contro Nicolas Sarkozy, che aveva ottenuto il sostegno di Barack Obama. In apparenza la NATO combatteva per affermare un principio di libertà. Di fatto fu il tentativo di appoggiare gli interessi francesi contro quelli italiani, allora prevalenti in quel territorio. Con la conseguenza di determinare una vera e propria catastrofe, come mostreranno gli avvenimenti successivi. Che segnarono la fine stessa dell’unità del Paese e l’inizio lunga guerra tra Tripoli e Bengasi.
Da allora sono trascorsi più di 10 anni, ma nel lungo ciclo della storia alcuni fatti possono ripetersi. L’importante è essere guardinghi, pronti a percepire l’odore di stantio che, a volte, traspare dietro l’indignazione retorica di chi vorrebbe solo farci fessi.