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Fontana Scuola

Caro presidente Fontana, lei sulla scuola ha toppato. Ecco perché

Il post di Diana Zuncheddu

 

La scuola non andava chiusa, se non dopo aver chiuso tutto il chiudibile possibile.

Ho interesse diretto? Assolutamente sì. Sono madre di tre, di 9, 12 e 15 anni. Si può pensare che io dica che la scuola deve restare aperta perché mi è più comodo non averli a casa? Assolutamente sì. Lo è. Ma non è solo questo, e non è nemmeno il punto più importante, guarda caso.

Il punto importante è che in questo caso togliere di mezzo uno degli acceleratori di aumento dei contagi – le scuole aperte – senza aver prima valutato e tolto tutto il superfluo che c’è, è sbagliato.

È sbagliato non perché sia un trauma psicologico gravissimo non andare a scuola a quindici anni, ma anche; è sbagliato non perché forse il nesso relativo latino non lo capiranno mai, a distanza, ma anche; è sbagliato non perché non potranno vedere per un po’, sopra la mascherina, gli occhi della ragazzina che li fa arrossire. Anche. E vorrei tanto vedere le statistiche dei video di Youporn.

Ma soprattutto: è sbagliato perché studiare, diventare consapevoli, quindi liberi di scegliere, è ciò che da anni diciamo ai nostri figli che ha più valore al mondo, e invece quel valore, di punto in bianco, puff, ciao, scherzavo, non esiste più.

I mezzi sono troppo affollati? Potevate pensarci da marzo a oggi. Fuori da scuola si assembrano? Mettete i vigili. Ma non venite a dirci che non c’erano alternative: le alternative c’erano e non le avete scandagliate, non le avete messe in opera, e avete preferito togliere, signor Fontana, ciò che era meno rumoroso togliere: la scuola ai quindicenni. Chiudere le aziende no, la gente poi muore di fame, e non più di Covid. Chi la sente Confindustria? I sindacati? Chiudere i negozi no, idem come sopra. Chiudere le palestre, idem. Gli stadi? Non sia mai.

Lasciare a casa i ragazzi è più facile, più da codardi, e meno problematico: chi li sente? Parlano? Urlano? Ma no. Per certi versi ne sono pure contenti: si alzano mezz’ora dopo, le verifiche e le interrogazioni sono vere fino a un certo punto, il programma si fa, ma va a rilento. Per non dire di chi non ha una buona connessione, un pc, e resta tagliato fuori.

Che senso di giustizia trasmettiamo loro con queste scelte? Che senso del servizio pubblico? Dell’equità? Del “i punti di partenza uguali per tutti e poi se sei bravo arrivi”? Puff, ciao, scherzavo.

I ragazzi che oggi non vanno a scuola si deprimeranno un po’, come già successo a marzo; perdono il ritmo del lavoro quotidiano, pressante, continuo – quello cui dovranno abituarsi per il resto della vita? – restano indietro con qualche pezzo di programma; sentono meno lo stimolo a riuscire, perché tanto gli altri in faccia non li vedo, non mi vedono, se li frego, o mi frego da solo, ma chissene. Il Covid ci ha fatto riscoprire l’importanza della relazione. Uau.

I ragazzi quindicenni che non vanno a scuola non muoiono di fame, forse moriranno di fame da grandi, perché non sapranno distinguere il tasso di interesse da usura da un tasso di interesse a norma. Ma pazienza: la vera sconfitta è che hanno già capito che non contano un cazzo, perché per noi adulti, in primis, non contano un cazzo.

E qui, ultimo ma non ultimo, arriva la scuola pubblica, arrivano i presidi, gli insegnanti, i commessi e le mense.

Mi dispiace dirlo, non pensavo che la scuola pubblica potesse tirare fuori il carattere che ha tirato fuori in tempi di Covid. Parlo di scuole di Milano, va bene, ma tantissime, dalle elementari ai licei, hanno dimostrato di avere bene chiaro cosa sia il servizio pubblico e quanta la responsabilità sociale legata al lavoro che hanno scelto.

Le classi sono state divise, quando troppo numerose per entrare in un’aula dove non si potevano rispettare le distanze imposte dal Ministero. Sono state divise le entrate e le uscite. Gli alunni tengono la mascherina sempre, anche se in alcune classi di primaria consentono di tirarla giù quando sei al banco e guardi avanti. Alcuni presidi di licei hanno deciso che scuola ne avevano perso abbastanza, i ragazzi, quindi il primo di  settembre tutti in classe. Mi sarei aspettata la rivolta sindacale dei professori, ma invece no: i ragazzi sono tornati in classe il 1° settembre. Le mense stanno funzionando. I commessi non si sono ammalati tutti in massa per un raffreddore, come qualcuno aveva immaginato potesse succedere.

Chapeau.

Almeno, signor Fontana, non dica che la scuola la ha chiusa anche a nome mio. O a nome dei docenti che sono in classe dal primo di settembre. O a nome dei commessi, dei cuochi, dei presidi.

Ha toppato, e ha toppato a nome suo.

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