L’elezione del Capo dello Stato attrae inevitabilmente le energie delle le forze politiche che, in gran parte, sono alla ricerca di soluzioni che, al netto delle battaglie di bandiera, consentano di individuare un inquilino del Quirinale senza compromettere la continuità della legislatura.
Lo straordinario autolesionismo di due maggioranze politiche diverse (prima la coalizione giallo-verde e poi quella giallo-rossa) riducendo il numero dei parlamentari ha aggravato il rischio di non essere più eletti. Che i parlamentari vogliano portare a termine il mandato non è una novità.
Senza fare alcun parallelismo tra le due situazioni viene alla mente il giugno del 1925 quando le opposizioni, che dopo il delitto Matteotti si erano ritirate sull’Aventino, si accingono a tornare a Montecitorio con l’obiettivo di far cadere il Governo Mussolini e mettono in conto anche di arrivare allo scioglimento della Camera in cui i fascisti non avevano ancora da soli il pieno controllo. Ma, osserva sconsolato Turati,” Nella maggioranza c’è grande orgasmo fra coloro che, non essendoci più il listone e temendosi più prossimo lo scioglimento della Camera, temono di non trovare un collegio che li ospiti”. Come andò a finire è ben noto.
Detto ciò è necessario soffermarsi su una delle principali cause che hanno reso così caotico e confuso un appuntamento istituzionale che nella storia è sempre stato oggetto di battaglie politiche e di (relative) sorprese ma non ha mai prefigurato scenari così incerti e per alcuni aspetti pericolosi.
Paradossalmente tale causa consiste nei risultati sinora complessivamente positivi del Governo di Mario Draghi che, associati alle condizioni disastrose di più o meno tutte le forze politiche che si sono fortemente indebolite sia in termini di qualità che di rappresentatività, hanno fatto si che queste ultime finiscano per percepire il capo attuale del governo più come un pericolo che come un’opportunità. Pur senza (probabilmente) volerlo è stato proprio il ministro leghista Giorgetti ad aver dato fuoco alle polveri indicando Draghi come Presidente di una Repubblica “de facto” semipresidenziale.
Certo sarebbe un grave errore vedere Draghi come un mago che risolve ogni problema. Ma è curioso che coloro che, a destra e a sinistra di Draghi farebbero volentieri a meno, siano pressoché unanimi sulla necessità che rimanga a Palazzo Chigi quasi fosse un’icona da esibire a Bruxelles o sui mercati finanziari.
Si dirà che il governo di quasi unità nazionale è nato per risolvere alcune emergenze, quella sanitaria e quella, ancora largamente sottovalutata, economico –finanziaria.
Il PNRR (la cui durata va ben oltre la normale scadenza elettorale del 2023) è una straordinaria opportunità ma se non si trasformerà in un efficiente motore di sviluppo e di crescita sarà difficile offrire lavoro alle nuove generazioni e ancor di più avviare il risanamento dei conti pubblici e restituire i prestiti.
Non sembra esservi la consapevolezza che le risorse europee non sono una “grande marmitte” dove ognuno può prelevare quanto desidera e soprattutto, che sono condizionate a riforme che possono essere scomode sotto il profilo elettorale.
Riemerge con prepotenza la questione della governabilità di cui si discute da qualche decennio, basti ricordare il dibattito che alimentò Bettino Craxi , anche sulla scorta dell’esperienza francese, sull’elezione diretta del Capo dello Stato, e gli elaborati delle varie “bicamerali” e la sconfitta di Renzi al referendum del 2016.
Avranno i partiti la capacità di affrontare, una volta eletto il nuovo Presidente, la questione delle riforme sia economico-sociali che istituzionali? Fa una certa impressione assistere alla chiusura di aziende strategiche per i costi esorbitanti del gas accompagnata dal silenzio assordante di gran parte delle istituzioni su un progetto efficace di diversificazione delle fonti di energia.
Così come non si riesce a entrare davvero nel merito di una riforma sostenibile del sistema previdenziale, a garantire equità ed efficacia al sistema fiscale individuando misure efficaci di lotta all’evasione, ad uscire dalla pura logica assistenziale e a restituire normalità al sistema giudiziario. Se vogliamo costruire l’Europa (se abbiamo accettato gli aiuti parrebbe di sì) occorre realizzare con le dovute gradualità processi di convergenza dei singoli Stati su parametri e regole comuni.
Difficile prevedere chi sarà il prossimo Presidente della Repubblica. Ma è certo che il tempo della semplice sommatoria dei differenti interessi elettorali, pur legittimamente rappresentati, è finito. Senza capacità di scelta delle forze politiche sulle questioni prioritarie, i partiti rischiano di essere emarginati, di offuscare il ruolo del parlamento e di accentuare il distacco già evidente con il paese reale.
E’ un’occasione importante anche per le forze sociali che possono contribuire anche sul piano morale a quella ricostruzione per lo sviluppo che è l’unica via d’uscita della crisi italiana. Ma occorre ricordare a tutti che potere e responsabilità sono le facce di una stessa medaglia.