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Cari colleghi intellettuali, basta intellettualismi

“Ocone's corner”, la rubrica settimanale di Corrado Ocone, filosofo e autore del recente saggio “La cultura liberale – Breviario per il nuovo secolo”

 

Uno degli aspetti più significativi delle recenti primarie del Pd è stato il riaffacciarsi sulla scena della politica, seppure solo per un momento e seppure in maniera discreta, di intellettuali, uomini di spettacolo, vip. Le foto di Roberto Benigni o di Gigi Proietti felici davanti ai gazebo e quelle altrettanto entusiaste di vincitori di Premi Strega, ospiti fissi di Festival delle letterature e affini, sono state ampiamente riportate dai giornali anche solo perché “facevano notizia”.

Il buon Rino Formica avrebbe parlato, con sarcasmo e perfidia, della ricomparsa attorno al re (che nel frattempo è all’opposizione ed è diventato solo un principino) di “nani e ballerine”. Diciamo la verità: il “truce” Matteo Salvini e l’“ignorante” Luigi Di Maio ci hanno abituato a un diverso scenario, e di intellettuali e uomini di spettacolo hanno mostrato di fregarsene alquanto. Lo stesso accade altrove con altri leader di successo: da Donald Trump a Jair Bolsonaro, per intenderci.

I consensi conquistati danno loro ragione, ma noi qui dobbiamo chiederci se questa messa da parte del mondo culturale abbia un senso e sia giusta o sbagliata. Io direi subito, cioè in prima istanza, che il fenomeno è una reazione giustificata a un andazzo che aveva prima messo in scacco i tradizionali Hommes de lettres poi trasformato i vecchi “intellettuali organici” di primo novecentesca memoria nei più pervasivi costruttori di senso comune che erano stati tutti coloro che avevano aderito alle bandiere del “politicamente corretto”.

Più in generale, però bisogna forse dire che è proprio sbagliato il modo in cui l’uomo di cultura (uso il termine nell’accezione più generale) si pone davanti alla politica, con una pretesa di “superiorità” e una non sopita volontà di indirizzo (o anche solo di influenza). E’ un’eredità soprattutto novecentesca, e che nel “secolo breve” ha causato non poche tragedie, ma risale addirittura a Platone. Il platonismo politico, con la sua pretesa di portare il mondo delle idee nella caverna degli uomini, cioè fra la “feccia di Romolo”, è però sostanzialmente una negazione della politica stessa, che è invece solo e semplicemente un gioco di forze per realizzare interessi materriali ed anche morali.

Venendo ad un uomo di cultura particolare, cioè lo studioso della politica, il suo compito è ad esempio ben delineato e preciso: capire le dinamiche che muovono la politica e la società, ma senza la pretesa che come conseguenza da questa (sempre parziale) comprensione ne sctaurisca una ricetta valida erga omnes per tutti solo perché certificata da questa attività “superiore” che sarebbe lo studio. Il filosofo inglese Michael Oakeshott odiava la “filosofia politica” perché in essa vedeva proprio all’opera questa idea o pretesa, la quale non tiene conto del fatto che le conoscenze son diffuse fra gli esseri umani e che anche quella del filosofo è una conoscenza precaria e parziale.

Andrebbe perciò tenuto sempre ben presente il monito espresso da Michael Walzer, forse il più profondo fra i pensatori “di sinistra” americani: nessuno può pretendere nel discorso pubblico un posto privilegiato. Anche un altro pensatore recente, Richard Rorty, liberale ironico e scettico, sempre in quest’ottica di pensiero, ha detto che la democrazia è superiore alla filosofia, cioè al pensiero astratto. Ho l’impressione che gli intellettuali veri siano non quelli (affamati di potere e gloria) del mainstream, ma coloro che, da uomini di cultura e proprio in quanto tali, criticano l’intellettualismo in tutte le sue forme e soprattutto il razionalismo in politica.

Che i vecchi intellettuali facciano un turno di riposo in politica, non è un male. Ed è anche uno dei meriti (fra tanti loro errori e contraddizioni) dei governi attuali.

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