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La Torre di Babele del Campo Largo sui referendum

Commenti, critiche e contraddizioni nelle opposizioni dopo le parole di Giorgia Meloni sui referendum. La Nota di Sacchi.

Il cosiddetto campo largo della sinistra di Elly Schlein, leader del Pd, insieme con quella ancora più radicale di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli e al leader dei Cinque Stelle, Giuseppe Conte, si scaglia sui referendum contro il premier Giorgia Meloni. Sotto gli strali dell’opposizione stavolta c’è la scelta annunciata da Meloni di andare a votare l’8 e 9 giugno ma senza ritirare la scheda per i 5 quesiti. Cosa assolutamente legittima che in questo modo non contribuirà a influire sul quorum. Tecnicamente si chiama astensione attiva.

Antonio Tajani, vicepremier, ministro degli Esteri e segretario di FI, difende la scelta di Meloni e annuncia che lui non andrà proprio al seggio per contribuire a non far scattare il quorum a referendum ai quali il centrodestra non crede. Noi Moderati di Maurizio Lupi alle urne invece andrà ma per votare no. Sono referendum voluti in primis dalla Cgil di Maurizio Landini, in cui il Pd intende smontare la riforma del jobs act fatta dallo stesso Pd ma guidato da Matteo Renzi, allora premier. Insomma, una consultazione che rischia di trasformarsi soprattutto in una sorta di resa dei conti a sinistra, tra quella più estrema e radicale, rappresentata da Landini e Schlein e l’ala riformista in sofferenza.

La cosa più paradossale è che Schlein attacca Meloni mentre il suo stesso partito, ufficialmente schierato sui cinque sì, è diviso e alcuni parlamentari riformisti, tra cui anche la vicepresidente del Parlamento Europeo, Pina Picierno, non ritireranno la scheda su tre dei cinque quesiti. Una scelta, insomma, come quella del premier che però non ritirerà nessuna delle cinque schede.

Il cosiddetto campo largo attacca ancora una volta a testa bassa il premier e il suo governo ma è evidente che cerca così di far passare in secondo piano le pesanti divisioni al suo interno. Se si va a guardare come voteranno partiti e leader delle opposizioni viene fuori un quadro di Arlecchino. La linea ufficiale del Pd è per cinque sì, ma alcuni riformisti non ritireranno la scheda sui quesiti relativi al lavoro e voteranno sì al quesito per dimezzare i tempi per la cittadinanza. I Cinque Stelle di Conte sono per quattro sì e libertà di coscienza sulla cittadinanza, per cui Conte voterà sì. Iv di Renzi voterà quattro no e sì sulla cittadinanza, Azione di Carlo Calenda è per il sì sulla cittadinanza e quattro no sul resto.

Insomma, una vera torre di Babele in cui emergono sempre più divisioni tra il piccolo centro che sta a sinistra e il Pd di Schlein attraversato dal disagio dei riformisti, anche quelli finora rimasti in silenzio che non si sa se nelle urne se la sentiranno di votare per l’abrogazione proprio di quel jobs act che avevano condiviso con Renzi. Meloni viene accusata da Schlein di “non avere coraggio” di schierarsi sulla “precarietà del lavoro” e di “prendere in giro gli italiani”, ma sono le stesse accuse che la segretaria Pd potrebbe rivolgere ai riformisti del suo stesso partito.

Quorum o non quorum, quello dell’8 e 9 giugno sembra soprattutto un appuntamento in cui la sinistra si misurerà sulle sue eterne sfide interne, a cominciare da quella per la leadership.

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