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Governo Gialloverde

Vi racconto ruspe, ramoscelli d’ulivo e occhi da cerbiatto che pullulano a Palazzo Chigi (mentre Bruxelles picchia sull’Italia)

Che cosa succede fra Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Matteo Salvini a Palazzo Chigi? I Graffi di Damato

Incalzato nella Piazza pulita di Corrado Formigli dallo stesso conduttore, che giustamente diffidava di trovarsi di fronte ad un genio incompreso della politica e dell’economia, l’unico ad avere ragione di fronte ad una comunità di istituzioni internazionali e nazionali scettiche o decisamente critiche delle ricette gialloverdi per mettere finalmente le ali all’Italia, il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio se l’è cavata non male, ma malissimo.

Non gli è mai mancato il sorriso, in verità, e neppure la tendenza a qualche battuta spiritosa, mai comunque paragonabile al modello andreottiano troppo generosamente attribuitogli in un libro qualche mese fa addirittura dal direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana. Che Iddio lo perdoni, visto che non lo avrà sicuramente fatto il “divo Giulio” dalla nuvoletta assegnatagli nello spazio. Ma oltre ai sorrisi e alle battute il giovane capo delle cinque stesse non è andato.

Ogni volta che le domande di Formigli si facevano stringenti, Di Maio offriva alla telecamera più che la voce i suoi occhi, ritenendo forse che potessero e dovessero bastare a procurargli benevolenza. D’altronde Bruno Vespa, ancora più generoso di Luciano Fontana, nel suo solito libro di fine anno, promosso su tutte le reti televisive, pubbliche e private, li ha paragonati a quelli espressivi e simpatici di un cerbiatto.

In questo contesto più di evasione che di partecipazione, l’ospite di Formigli è sfuggito anche alla domanda sul significato dell’espediente che qualche ora prima era stato abbozzato alla Camera dal presidente del Consiglio nella “informativa urgente” sulla bocciatura dei conti italiani arrivata dalla Commissione Europea, sull’avvio della pur lunga procedura d’infrazione per debito eccessivo e sull’incontro conviviale che egli ha chiesto e ottenuto per sabato col presidente della stessa commissione di Bruxelles Jean Claude Juncker. Che è purtroppo lo stesso al quale il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini suole ogni tanto dare praticamente dell’ubriaco, predisponendolo non proprio al meglio nei rapporti con l’Italia. Ma questa è un’altra storia. Salvini notoriamente parla con poca continenza, diciamo così, magari convinto di riuscire anche per questo simpatico a tanti elettori, che lo hanno fatto crescere come un fungo il 4 marzo scorso e ancora più dopo, nei sondaggi e nelle prove locali.

Non a caso il mezzo che più si associa all’immagine di Salvini è la ruspa, su cui egli è sempre pronto a montare come su un cavallo. Appena ne avverte presenza e uso accorre a godersi lo spettacolo, come ha fatto inseguendo la sindaca di Roma Virginia Raggi nel teatro della demolizione delle otto ville abusive dei Casamonica.

Giuseppe Conte per fortuna non andrà a Bruxelles con la ruspa. Così almeno ha promesso al Parlamento e al presidente della Repubblica. Ci andrà con un metaforico ramo d’ulivo costituito dalla disponibilità -ha detto- a una “rimodulazione” della manovra economica e finanziaria che tanto ha allarmato gli organismi comunitari, e purtroppo anche i mercati finanziari. Dove la temperatura dei titoli del nostro debito pubblico è salita ben oltre i trecento punti e non può ancora rimanere così alta -hanno ammesso anche i ministri dell’Economia e della politica europea- senza risparmiarci la fossa.

Ebbene, in che cosa consista esattamente questa benedetta “rimodulazione” della manovra né Conte alla Camera, dove peraltro non ha replicato alla fine della discussione sulla sua informativa, né Di Maio da Formigli hanno ritenuto di dare spiegazioni, e tanto meno Salvini dalla Sardegna, dove è corso per preparare la campagna elettorale regionale.

Molti hanno pensato e pensano che rimodulare la manovra possa significare rinviare di qualche mese, alleggerendo il bilancio di fine anno, le spese per il cosiddetto reddito di cittadinanza e l’anticipo della pensioni: le bandiere elettorali, rispettivamente, dei grillini e dei leghisti. Ma questi ultimi si guardano bene dal confermarlo, ben decisi comunque a non andare oltre marzo, perché a fine maggio si voterà per il rinnovo del Parlamento europeo e i loro elettori debbono avere potuto almeno assaporare i primi frutti degli alberi piantati durante la campagna elettorale scorsa per il rinnovo del Parlamento italiano.

Chi vivrà naturalmente vedrà. Intanto sul fronte mediatico gialloverde si avvertono i primi segni, a dir poco, di incertezza. Marco Travaglio, per esempio, ha aperto nel suo Fatto Quotidiano un dibattito su chi potrebbe o dovrebbe avvertire più convenienza e urgenza, fra grillini e leghisti, a chiudere la loro esperienza di governo, propendendo a credere personalmente che convenga più ai pentastellati. Secondo lui, i leghisti avrebbero dimostrato dalla caduta del ponte Morandi in poi, a Genova, di essere tornati a rappresentare il partito degli affari e del cosiddetto estabilishment: degni alleati di Berlusconi e altri “prescritti”.

Maurizio Belpietro sulla sua Verità, ora forte anche dell’acquisizione del settimanale Panorama, ha colto l’occasione offertagli da un lettore per chiarire in prima pagina di avere appoggiato questo governo e di poter ancora continuare a farlo, senza esserne però “al servizio”, come evidentemente a qualcuno può essere apparso.

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