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Javier Milei

Vi racconto il Brasile armato fino ai denti prima del ballottaggio Lula-Bolsonaro

Ecco cosa succede in Brasile prima del ballottaggio fra Bolsonaro e Lula. L'approfondimento di Livio Zanotti

Se inascoltati, i timori ragionevoli si sostanziano prima o poi in fatti concreti e nella loro evidenza simbolici, oltre che innegabili. Promosso dal presidente Bolsonaro, il boom del commercio d’armi in Brasile suscitava da tempo ampio allarme, è stato un tema centrale dell’accesa campagna elettorale. Il nuovo capitolo della corruzione. C’erano i devoti del “non allarmiamoci per niente…”.

Ma l’allarmismo è una perversione della ragionevolezza, dunque tutt’altra cosa; e gli uccelli del malaugurio sono un’astrazione superstiziosa, retaggio dell’universo magico-primitivo. In termini assai più coloriti, è un po’ questo il senso dei commenti fatti dalla squadra scelta dei poliziotti coinvolti nella pazzesca battaglia (tre feriti), fucilate e bombe a mano, scatenata un paio di notti addietro a Rio de Janeiro dal notissimo ex deputato di estrema destra Roberto Jefferson, 69 anni, amico personale e alleato politico del presidente Jair Bolsonaro. Dovevano portarlo in carcere e lì è finito, per intimidazioni, oltraggio e minacce a magistrati della Corte Suprema. Si è aggiunto il tentato omicidio. Era già agli arresti domiciliari.

“Ogni cittadino dovrebbe comprare un fucile!”: può suonare un sarcasmo alla Woody Allen o una pubblicità della potentissima National Rifle Association degli Stati Uniti; invece è l’invito più volte rivolto ultimamente ai brasiliani da un sorridente Jair Bolsonaro, che del gesto di armare il revolver sollevando indice e pollice della mano destra, ha fatto il saluto abituale degli incontri elettorali. È il suo modo di dare sicurezza ai cittadini. L’anno scorso ha emanato tre decreti che hanno liberalizzato l’acquisto di armi da parte di privati, che se cacciatori dichiarati o tiratori amatoriali sono liberi di detenere decine di fucili e pistole con relative munizioni anche di grande calibro. Basta una “ragionevole motivazione”. Nei quattro anni del suo mandato presidenziale (2018-2022), il Foro Brasileiro da Seguranca Publica ha registrato un incremento del 473 per cento di armi in mano a privati. I brasiliani hanno in casa all’incirca 4 milioni e mezzo di armi. Global Peace Index classifica il loro paese al posto 116 tra i 163 paesi con il più alto indice di violenza privata.

Ho incontrato Roberto Jefferson molti anni addietro, era già un protagonista tra i più controversi della scena politica di Brasilia. Vale la pena parlarne perché è un personaggio emblematico di una certa politica e aiuta a spiegarla. Conservatore di formazione, animoso per temperamento, con una forte idea di sé, disinvolto e al tempo stesso estremamente suscettibile, nei primi Novanta del secolo scorso si era fatto paladino di Fernando Collor. L’allora capo di stato accusato di corruzione che fu infine costretto a dimettersi per sfuggire all’ impeachment. Ed è ancora lui che una decina d’anni dopo ha fatto esplodere lo scandalo del Mensalao, dei voti comprati in Parlamento per far passare le leggi. Jefferson finì in carcere per corruzione e riciclaggio. Risultò compromesso il prestigio del PT di Lula e  vulnerato anche quello dello stesso fondatore e leader. L’idea che la magistratura inquirente attribuisce a questi personaggi è che l’organizzazione della politica costa, il denaro necessario per finanziarla in qualche modo va trovato e l’onore dei diretti interessati starebbe solo nel non farne un uso personale. Un’etica nient’affatto nuova in nessun continente.

Ma il Brasile, con il suo melting-pot in cui ribollono 220 milioni di abitanti che producono l’undicesimo PIL del mondo, diventa un test socio-politico amplificatore d’ogni effetto a dismisura, aggiungendovi adesso il fragore della sparatoria e le sue conseguenze. Lula, già favorito al ballottaggio di domenica prossima per la massima magistratura dello stato, spera di trarne ulteriore e tutt’altro che innecessario vantaggio. Evitando i rischi di altre violenze e di qualche brutta sorpresa. L’ombra del partito militare sui risultati permane. A confortarlo ci sono sondaggi e umori di strada. Soprattutto quest’ultimi. Dai miseri villaggi del Nordeste alle caotiche periferie delle megalopoli, nessuno dimentica i milioni di dispense riempite di riso carne e fagioli dalle due prime presidenze (2003-2010) dell’ex operaio metalmeccanico; né il riscatto delle masse nere e mulatte dalla segregazione in cui malgrado lo stato di diritto le manteneva l’immaginario di fatto dominante nei rapporti sociali. Resta fragile la popolosa democrazia brasiliana.

Jair Bolsonaro, proficuamente ricambiato, bombarda Lula d’insulti e fake-news. Ha ripreso anche quella secondo cui se Lula tornasse al governo chiuderebbe le chiese evangeliche, afferrandosi alla sua presunta intenzione di tassare le loro grandi proprietà: il prelievo fiscale, tra i più iniqui del continente, è uno dei terreni di scontro meglio mimetizzati. Ma  non dice una parola sui 685 mila morti uccisi dal Covid ch’egli, beffardamente, ha sempre definito una “semplice influenza”, arrivando a gettare con plateale noncuranza in un cestino dei rifiuti la mascherina di protezione che gli era stata data all’ingresso in una casa per anziani. Stravolgere o più spesso banalizzare i problemi per proporne soluzioni semplicistiche, quando non completamente immaginarie, è uno degli escamotage a cui ricorre più volentieri. È con questo zigzagare che insegue l’avversario nei pronostici. Alcuni dei quali calcolano che in questo rush disperato quanto tenace potrebbe anche raggiungerlo.

Sebbene multinazionali e grandi gruppi industriali l’abbiano seguito con più scetticismo che sostegno, rimproverandogli di non aver privatizzato le grandi aziende di stato, a cominciare dalla super-big Petrobras, malridotta nei conti e nell’immagine ma ancora poderosa e molto appetita. E la classe media sia delusa perché la sua promessa mano dura non ha ridotto il dilagare del crimine. C’è poi insoddisfazione per il ministro dell’Economia, Paulo Guedes, campione del neoliberismo, perché ha liberalizzato più l’import che l’export, aumentando la concorrenza alla produzione locale. Né piace la politica restrittiva del Banco Centrale che in linea con Stati Uniti ed Europa punta a portare al 14 per cento il costo del denaro, frenando gli investimenti ma non l’inflazione. Mentre la concorrenza tra i maggiori stati del paese, San Paolo, Minas Gerais, Rio de Janeiro, Bahia e il Sud porta all’aumento della pressione fiscale al fine di far quadrare i conti e rafforzare le rispettive amministrazioni statuali.

Il sostegno fondamentale di Bolsonaro sta nei giganteschi interessi agro-esportatori, ai quali ha spalancato lo sfruttamento dell’Amazzonia; e nelle potenti milizie evangeliche di cui l’ex capitano dell’esercito è sacerdote officiante e la famiglia fedele assidua e partecipe. Oltre alla maggior parte dei militari e del mondo impiegatizio di Brasilia. Decisivo, nell’imminente sfida alle urne, sembra essere però quell’elettorato di borghesia minuta dei centri urbani, non necessariamente religioso e comunque non politicamente impegnato, che si sente stretto tra élites sempre più ostentatamente milionarie in dollari e la crescente insofferenza dell’eterogenea e vitalissima moltitudine degli emarginati, il mondo delle favelas ma anche del lavoro salariato senza contratto. Ai quali il PT di Lula sostanzialmente non arriva, ricevendone un’attenzione altrettanto distratta. È qui e adesso, nelle prossime ore, che nelle speranze dei bolsonaristi il cash della cassa riservata della Presidenza e dei commercianti d’armi potrebbe fare la differenza, conquistare simpatie, sovvertire i pronostici, giungere domenica sera a un testa a testa che spingerebbe il paese in un tragico vuoto di potere.

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