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Vi racconto i bombardamenti atomici di Nagasaki

Il 9 agosto 1945 la bomba "Fat Man" colpì Nagasaki. Il ricordo di Enrico Ferrone

 

Il 9 agosto 1945, alle 3:49 e cioè molto prima dell’alba, dall’isola di Tinian – nell’arcipelago delle Marianne – si alzavano in volo tre B-29 Stratofortress per raggiungere il Giappone meridionale. Una distanza di circa 2.500 km. Accadeva settantotto fa.

Uno di quei grossi bombardieri componenti la formazione – numero di serie 44-27297, era denominato Bockscar – aveva in stiva un ordigno micidiale, un involucro di circa tre metri dal peso di oltre quattro tonnellate, di potenza di circa 25 kilotoni. L’ordigno era la realizzazione del progetto Gadget, testato mesi prima a Alamogordo per mettere fine a una guerra sanguinosa e spietata che già però sembrava volgere al termine per il paese bersaglio.

Quella orribile bomba fu lanciata su Nagasaki, una cittadina nota già ai melomani per la “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini e poi perché in un solo colpo è costata la vita ad un numero imprecisato di persone. Forse 60 o 80.000.

Tre giorni prima il Giappone era già stato colpito a morte da un’altra flottiglia di B-29 a Hiroshima, ma con un ordigno diverso.

Ma Bockscar, questa è storia, non era diretto a Nagasaki secondo i piani di attacco americani. L’obiettivo fu deciso mentre la missione era già in atto perché c’erano troppe nubi su cieli della città Kokura, prima area da colpire, individuata anche per la dislocazione di diversi depositi di munizioni. Poi il comandate del quadrimotore Frederick C. Bock -i nomi potrebbero essere anche diversi e non cambia molto perché erano militari obbligati a eseguire gli ordini- dopo un indugio assai lungo che gli costò il quantitativo di carburante per tornare alla base di partenza, virò su Nagasaki e il suo porto commerciale. Il cielo era più pulito e c’erano minori probabilità di errore. Meno rischio di sprecare un carico così pregiato!

Alle 11:02 dagli Stratofortress in volo fu avvistato il bersaglio e “Fat Man”, con il suo contenuto letale di 6,5 kg. di plutonio-239 veniva liberato per esplodere a 470 metri di quota. La tragedia si consumava nella Valle di Urakami annientando i siti di produzione di Mitsubishi. Ma anche tanti innocui civili.

Dopo lo sgancio, Bockscar con gli altri due B-29, Big Sting attrezzato per le riprese fotografiche e Great Artist per i rilievi ambientali furono costretti ad atterrare alla base di Yontan Okinawa perché in condizioni di “zero fuel”, ovvero con i serbatoi a secco.

La scelta di Hiroshima fu invece dovuta al fatto che la città di 255.000 abitanti aveva importanti depositi militari pur essendo una base minore del Giappone basso ma anche perché nei suoi dintorni non c’erano campi di prigionieri militari. E poi perché le sue costruzioni in legno erano ideali per la distruzione rapida degli edifici. La missione avrebbe dovuto essere principalmente illustrativa, secondo i protocolli americani, tant’è che uno dei tre velivoli della missione aveva installate solo camere fotografiche. Una dimostrazione, allora come allora, di tutte le velleità esibizioniste della macchina da guerra.

Così, nella prima decina di giorni del mese più caldo dell’anno si poteva dichiarare che il progetto Manhattan era stato un successo; l’intera messa a punto dell’operazione distruttiva era costata ai contribuenti americani circa due miliardi dell’epoca e secondo le vosì della propaganda, aveva salvato la vita di moltissimi soldati americani.

Perché ricordare questa storia? Perché a volte sembra che il passato non faccia scuola, viste le minacce continue che si stanno perpetrando in alcune cancellerie occidentali, senza tener conto della drammaticità degli effetti che potrebbero aversi sull’intero pianeta.

Alcune considerazioni possono farsi: ci illudiamo che gli scienziati autori del programma non abbiano brindato al successo come si racconta in giro con eccessiva leggerezza, pur consci di aver portato a termine un risultato colossale. La scoperta dell’energia nucleare è stata epocale e sicuramente sarà necessaria all’umanità, sempre più dipendente da fabbisogni energetici. Il problema poi è l’uso che se ne farà. Non è chiaro, questo è certo, chi sia nel giusto ad utilizzarla e chi non lo sarà. Già durante la Seconda Guerra Mondiale le ricerche nucleari del Terzo Reich erano molto avanzate e negli Stati Uniti se ne aveva la consapevolezza. Era una corsa a due senza esclusione di colpi.
Leonardo Sciascia nel suo saggio “La scomparsa di Ettore Majorana” si sofferma su questo punto e ricorda che gli storici recenti hanno affermato che se Aldolf Hitler fosse arrivato per primo a gestire gli armamenti nucleari, sarebbe stato un dramma per l’intero mondo. Vero. Perché l’avrebbe usati. Ma poi questo è avvenuto lo stesso, ammetterà lo stesso Sciascia.

È cambiato qualcosa? Forse sì. Forse Manzoni se avesse vissuto nell’era atomica non avrebbe sentenziato “ai posteri l’ardua sentenza” a fine del suo “5Maggio”. Ma ne “La Storia” di Elsa Morante in terza pagina c’è una scritta molto significativa: “Non c’è parola, in nessun linguaggio umano capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte”. Era stata detta da una delle vittime della bomba atomica; è deceduto poco dopo.

Mai più dunque dover celebrare date così infamanti per la razza umana. Siano di esempio quelle sofferenze dolorose e si studino tutte le soluzioni diplomatiche per far in modo che non vengano mai più usate armi così distruttive. L’energia nucleare sia impiegata solo per il bene dell’umanità. È l’auspicio che tutti noi dovremo avere.

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