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Afghanistan: Biden lungimirante o scimunito?

I Graffi di Damato leggendo i quotidiani italiani sul caso Afghanistan.

Per non prendersela, anzi riprendersela col presidente americano Joe Biden, già colpito dalla sua ironia ma proprio oggi difeso in un editoriale di Paolo Mieli nella dolorosa vicenda dell’Afghanistan, Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera ha rivolto i suoi sberleffi – direbbe lo stesso Mieli – al presidente del Consiglio italiano Mario Draghi. Al quale ha fatto dire, nella vignetta di giornata, che “dopo l’esportazione della democrazia”, evidentemente fallita o riuscita male in quelle terre lontane dopo vent’anni di occupazione militare, “ora non resta che l’importazione di rifugiati”. Su cui peraltro l’Europa già si è divisa, come al solito,

Paolo Mieli ha opportunamente ricordato che Biden ha ereditato dal predecessore Donald Trump i cosiddetti accordi di Doha, stipulati trattando con “l’Emirato islamico afghano che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come Stato ed è noto come i talebani”, secondo i documenti diffusi dagli stessi americani su quei negoziati per la fine dell’occupazione militare degli occidentali, originariamente concordata per fine maggio e poi prorogata al 31 agosto. Pochi o nessuno dei governi che hanno più o meno esplicitamente contestato alla Casa Bianca la gestione del ritiro delle truppe hanno fatto qualcosa di serio per evitare che si arrivasse alle immagini da Kabul di cui ora sono scandalizzati o sorpresi prendendosela con Biden.

Al “festoso” G7 di giugno in Cornovaglia “il dossier Afghanistan – ha ricordato Mieli – fu collocato ad uno dei penultimi posti, il cinquantasettesimo su settanta. Ora si può tranquillamente affermare che, se in Cornovaglia qualcuno avesse suonato l’allerta, avremmo avuto un centinaio di giorni in più per procedere ad un’evacuazione dall’Afghanistan assai più ordinata”.

Quanto poi al rifiuto di Biden opposto, in questa fase convulsa delle partenze dei profughi, alle richieste di un rinvio ulteriore delle scadenze del ritiro dei militari stabilite con i talebani, smaniosi di subentrare del tutto agli occupanti anche nell’aeroporto di Kabul, peraltro minacciato da gente più estremista di loro, Mieli ha realisticamente condiviso la linea del presidente americano. Il quale è convinto che rispettando gli accordi gli Stati Uniti avranno “più forza per intervenire in modo diverso, anche militarmente, ma in discontinuità con la presenza dei vent’anni trascorsi. Stare ai patti -ha spiegato Mieli- offrirà più titoli domani per dar vita ad alleanze che siano in grado di costringere” i talebani “a rispettarli anche loro”, e a dimostrare se e quanto sono davvero cambiati aprendosi alle trattative di Doha. “Aspettiamo prima di dare un giudizio sui mesi iniziali della sua presidenza”, ha concluso Mieli, concordando evidentemente con la linea scelta in Italia da Draghi, a proposito sempre di Biden e di chi già lo liquida come un traditore o uno scimunito. Che intanto sta aiutando il presidente del Consiglio italiano a organizzare quella sessione straordinaria del G20 a metà settembre per stendere sull’Afghanistan una rete di sicurezza mondiale, coinvolgendo tutti i paesi davvero interessati a quell’area incandescente.

Con i fatti si misurerà anche il pessimismo di Mattia Feltri, che sulla Stampa ha avvertito le democrazie “spaventate” che “si rinserrano nei loro castelli, chiudono i confini anzichè aprirli, preoccupate che i barbari vogliano attraversali per mangiargli nel piatto”.

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