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Sala

Le guerre di Beppe Sala

Il corsivo di Teo Dalavecuras

 

La sala Verdi del Conservatorio di musica di Milano, auditorium realizzato su linee che si possono definire avveniristiche dall’architetto Ferdinando Reggiori nel 1958, insieme alla sede dell’Università degli studi, la Ca’ Granda, eretta sulle macerie post-belliche dello ‘spedale dei poveri, la struttura ospedaliera realizzata a partire dal XV secolo, è sempre stata un motivo di orgoglio per la borghesia illuminata milanese che, potrà sembrare strano, nel dopoguerra e almeno fino al tornante del ’68 esisteva e operava, con tutti i suoi limiti naturalmente, in modo illuminato.

La sala Verdi, in particolare, è sempre stata il punto di riferimento degli autentici amanti della buona musica, laddove la Scala era ed è frequentata da un pubblico più differenziato dove ai patiti dell’opera lirica si affiancano i patiti della mondanità e del prestigio sociale.

Finché la sera del 19 dicembre 1972 la sacralità del luogo non venne violata dall’enfant prodige della musica italiana e non solo, il pianista Maurizio Pollini allora trentenne ma già da anni affermato a livello internazionale. Prima di sedersi al pianoforte l’artista cominciò a leggere dal palcoscenico, anche a nome di Claudio Abbado, Luigi Nono e Bruno Canino, un messaggio contro i bombardamenti americani in Vietnam. Si racconta che appena proferita la parola “Vietnam” la platea insorse in un boato che impedì a Pollini di proseguire nella lettura. La serata finì lì, poiché a quel punto il pianista, per tenere il concerto, pose la condizione, subito respinta dagli organizzatori, che gli venisse consentita la declamazione dell’intero messaggio. La borghesia frequentatrice della sala Verdi era sì illuminata, ma nondimeno rassicurata dall’egemonia Usa più che dal suo contrario.

Nel dicembre 1972 l’attuale sindaco di Milano Giuseppe Sala, allora quattordicenne, forse rimase impressionato e magari un pochino invidioso della clamorosa performance – non musicale – di Pollini. Sta di fatto che il 24 febbraio scorso Sala ha avuto, oggettivamente, l’occasione di emulare il pianista cinquant’anni dopo, e non se l’è fatta sfuggire. Ha deciso di mandare a monte la replica della Dama di Picche perché il direttore Valery Gergiev, amico personale di Vladimir Putin (che aveva appena dato il via all’invasione del territorio ucraino), non ha accolto la sua richiesta di premettere all’inizio dello spettacolo una dichiarazione “contro la guerra”.

Si potrebbe obiettare che la dichiarazione di Pollini davanti al pubblico della sala Verdi era una scelta personale dell’artista mentre quella che avrebbe dovuto pronunciare Gergiev gli veniva richiesta con tutta l’implicita pressione derivante dal ruolo di chi gliela chiedeva; d’altra parte, non essendo Sala un celebre concertista, il solo modo possibile di emulare Pollini era nel risultato finale di mandare a monte lo spettacolo.

Saremmo nel campo degli inevitabili danni collaterali di qualsiasi guerra (fossero solo questi!), ma non è finita qui. Nello sforzo – che a mio modestissimo avviso poteva risparmiarsi – di giustificare la decisione il buon sindaco Sala ha detto “mi pare siano otto i teatri europei” (che hanno allontanato Gergiev, ndr). Sbagliano tutti, possibile?”. E poi, pèso el tacòn del buso: “Vorrei precisare che non è stata chiesta nessuna abiura a Gergiev, ma di condannare la guerra. È uno sbaglio? Non so”. Ma no caro Sala, lei non sbaglia, è consuetudine, nelle circostanze più diverse, di esigere dai direttori d’orchestra una pubblica condanna della guerra prima del concerto, si è sempre fatto così.

Mentre il primo è stato un danno collaterale sicuramente inevitabile, il secondo era evitabilissimo, se soltanto Sala, per una volta, avesse lasciato ai suoi contraddittori l’ultima parola.

 

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