Chiamiamola pure impropriamente Pirellinopoli, dal nome dell’edificio di Milano attorno al cui ampliamento per sei anni si è svolta una guerra fatta di vari ingredienti: burocratici, politici e persino legislativi, con un tentativo fallito di darle una soluzione in Parlamento. La vicenda infine è esplosa giudiziariamente, mediaticamente e politicamente nel millesimo giorno della permanenza di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, per cui si è risolta in una partecipazione alla festa della premier e, più in generale, del centrodestra. Paradossale, incredibile, “allucinante”- come ha detto il sindaco di Milano Beppe Sala apprendendo dai giornali e non dalla Procura di essere indagato come lui, con un’altra ventina di persone fra cui sei sotto richiesta di arresti domiciliari – ma fattualmente vero.
Per quanto non sottoposto anche lui, almeno sinora, alla richiesta degli arresti domiciliari, Sala è quello destinato a pagare di più per Pirellinopoli per il semplice fatto che era quello che aveva ed ha politicamente da perdere di più a livello politico per gli obiettivi che si era proposti. O si era lasciato attribuire nella previsione della scadenza del suo secondo mandato di sindaco, cui non può seguirne un terzo consecutivo. Avrebbe potuto invece seguire, prima di questa vicenda apparentemente urbanistica, la sua partecipazione alla gara a federatore dell’alternativa al centrodestra nelle elezioni del 2027 per il rinnovo del Parlamento.
La sua corsa è finita qui, come si diceva e credo si dica ancora nelle selezioni di miss Italia. Più che la richiesta di dimissioni da sindaco levatesi dall’interno del centrodestra, dove il garantismo si prende forse troppe licenze, vale contro Sala e la sua corsa alla leadership di un centrosinistra pur improbabilmente esteso abbastanza per diventare competitivo, il muro levato da Giuseppe Conte: l’ex presidente del Consiglio e presidente per ora solo del MoVimento 5 Stelle, che celebra adesso, credo senza allegria, i 1500 giorni trascorsi dalla perdita di Palazzo Chigi. Dove a sostituirlo fu chiamato Mario Draghi dal tuttora presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Conte ha gridato che sul piano morale non guarda in faccia nessuno, e tanto meno gli fa sconti. A cominciare da Sala, che fra i vari inconvenienti ha anche quello – si potrebbe scherzare – di essere chiamato Beppe come Grillo. E di essergli anche notoriamente amico, forse persino solidale nella disavventura della sostanziale defenestrazione da garante o dal “più elevato” del movimento fondato praticamente in piazza, fra grida e insulti, dopo avere inutilmente tentato di scalare addirittura il Pd all’indomani delle dimissioni a sorpresa del suo primo segretario Walter Veltroni. Era l’estate, come questa, del 2009. Il segretario della sezione piddina di Arzachena, sulla Costa Smeralda, aveva anche incassato la quota di iscrizione di Grillo al partito, non so se rilasciandogli pure la tessera, comunque costretto poi a restituire l’una e riprendersi l’altra su ordine del reggente nazionale del Pd. Che era Dario Franceschini.