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Lo strano caso di Renaud de Planta, il banchiere svizzero che vuole pagare le tasse in Italia

Il caso del banchiere svizzero che vorrebbe essere tassato in Italia. La lettera di Teo Dalavecuras.

Caro direttore,

può fare effetto, soprattutto a noialtri italiani, che un banchiere ginevrino di antica schiatta lasci il proprio Paese per stabilire la propria residenza stabile in Italia. C’è un antico pregiudizio che da molto tempo considera la confederazione elvetica un paradiso fiscale e, anche se impropriamente, veniva considerata tale per l’afflusso di ingenti capitali non dichiarati in patria, ma questa è una storia finita da molti anni.

Bisogna intendersi. Anzitutto non ha molto senso parlare di “nero” perché da un lato circola in tutto il mondo, in qualche caso ha anche salvato Paesi dal tracollo sociopolitico (penso alla Grecia negli anni dal 2010 al 2019); in secondo luogo, già da molti anni la Svizzera ha aderito e applica l’Accordo Fatca sullo scambio di informazioni relative ai patrimoni dei non residenti (l’unico Paese che si limita a esigere informazioni di questo tipo dagli altri – senza però fornirne alcuna – sono gli Usa, che non hanno aderito all’Accordo). É vero, invece, che la Svizzera ha sempre praticato una politica fiscale relativamente favorevole per le attività d’impresa e il lavoro, sia autonomo che subordinato, e meno friendly con le rendite e i capitali. Chi vive del suo è meno favorito, perché paga un’imposta patrimoniale che può arrivare all’8 per mille, oltre alle imposte ordinarie su tutti i redditi.

C’è però un’eccezione. Esiste da molto tempo una pratica variamente istituzionalizzata in diversi Cantoni elvetici (Zurigo e Basilea l’hanno abolita) riservata agli stranieri che scelgono di risiedere in Svizzera e che possono chiedere di essere tassati “secondo il dispendio”, comunemente detti “globalisti”, con importi annui forfettari che vanno da 400 mila (meno nei Cantoni francofoni) a 630 mila franchi rimanendo liberi, pur risiedendo nella Confederazione, di applicare tutti i più creativi sistemi di “ottimizzazione fiscale” a tutte le loro proprietà nel resto del mondo: anche chi può vantare un patrimonio di oltre 30 milioni di dollari (gli “Ultra-High-Net-Worth Individual”) non può senz’altro dare per scontata la convenienza di questa forma di tassazione (considerato che tutti i proventi da cespiti patrimoniali in Svizzera continuano ad essere tassati e che è incompatibile col regime globalista qualsiasi attività lucrativa), benché certamente 30 milioni di dollari siano un importo più che rispettabile. Ma ormai, in forme diverse, la politica di incentivare l’afflusso di persone molto ricche è assai diffusa. In Italia qualcosa di analogo alla tassa “secondo il dispendio” venne introdotto nel 2017 dal governo Renzi con un importo forfettario di 100 mila euro, raddoppiato nel 2024 dal governo Meloni.

E qui ritorno al banchiere ginevrino. Concluso il proprio percorso di socio amministratore della Banca Pictet & Cie, l’aristocratico Renaud de Planta avrebbe deciso di trasferirsi in Italia, in Toscana, valendosi del “regime globalista italiano” (oltretutto il regime fiscale ginevrino si è notevolmente inasprito in questi anni… è pur sempre la patria di Calvino!). L’indiscrezione è uscita su un domenicale svizzero e dopo qualche tempo se ne sono impadroniti anche i media italiani. Si è detto e si è scritto che questa “emigrazione fiscale” di un socio già co-gestore di una banca del prestigio della Pictet – tra i principali custodi e gestori di patrimoni privati e istituzionali del mondo, di proprietà privata chiusa a quattro mandati (nei suoi 220 anni di vita si sono avvicendati solo 49 soci amministratori) – da un lato dovrebbe creare imbarazzo all’interessato, che siede nel Consiglio di Banca della Banca Nazionale Svizzera, e dall’altro sarà utilizzata questo autunno nella campagna pro o contro la proposta referendaria, devastante per l’ossatura imprenditoriale svizzera, di un’imposta federale di successione del 50% sulla trasmissione ereditaria o per donazione dei patrimoni di entità superiore a 50 milioni di franchi svizzeri. Devastante perché, di fatto, diventerebbe una via per imporre di fatto alla grande maggioranza degli eredi la vendita dell’azienda, anche quando volessero continuarne la gestione. In sostanza, un inconsapevole attentato al tessuto imprenditoriale elvetico.

Posso sicuramente sbagliare ma, se la Confederazione non ha perduto i propri codici genetici, nessuna delle due cose dovrebbe succedere. Il referendum promosso – direi con scarsissima tempestività (magari ancora nel mondo prima del Covid, ma nel 2024!) – dai giovani socialisti denota assoluta ignoranza sui fondamenti dell’economia in generale e del benessere elvetico in particolare. Della Svizzera, che resta ancora uno dei rarissimi Paesi al mondo in cui si è realizzato una “socialdemocrazia di fatto” in un’economia capitalista e una società liberale. Sarà una partita tra una sorta di grillismo che a babbo morto attraversa i verdi e i socialisti, e la classe media. Benché i primi sondaggi lo dessero larghissimamente perdente (96% i no), non esistono quorum in materia, e le sorprese non si possono mai escludere. La classe media è piuttosto permeabile alla propaganda “politicamente corretta”, sia in versione verde sia in versione umanitaria.

Se fossero i promotori del referendum a brandire di loro iniziativa il “caso de Planta”, sarebbe ovviamente autolesionismo. Se fossero i “ricchi” a farlo, sarebbe anche qui un autogol: i promotori del referendum – che saranno economicamente sprovveduti, ma non incapaci sul piano della propaganda – innesterebbero a questo punto un tormentone sulla ricchezza e sulla povertà con immagini e storie suggestive, così da distrarre l’elettorato da ciò che il referendum chiede al popolo elvetico: se debba essere approvata o meno una disposizione che prevede una imposta federale del 50% sulle successioni e donazioni di oltre 50 milioni di franchi, lasciando intatte le corrispondenti imposte vigenti a livello cantonale.

Quanto poi alla posizione di de Planta, non sembra ci siano le basi legali per imporre ai membri del Consiglio di Banca della Banca nazionale svizzera la residenza, oltre alla nazionalità (che è prevista come i consueti requisiti di competenza e moralità). Ma, anche se viviamo in un mondo dove esistono consorterie di ricchi che lamentano pubblicamente di non essere tassati abbastanza, che la Banca nazionale svizzera possa pensare di privarsi delle competenze di de Planta o che la “società civile” elvetica coltivi polemiche su un banchiere svizzero che si trasferisce all’estero, una volta concluso il suo ciclo professionale, valendosi del trattamento fiscale ivi previsto, in nome della morale, sarebbe una doppia autoflagellazione. Una smentita della tradizionale immagine di apertura internazionale della Confederazione, e anche della rigorosa laicità di pensiero sul tema fiscale. Invece, che in genere l’argomento susciti pruriginosa curiosità nel mondo dei media italiani, si può capire. Ma sulla Stampa e sulla Repubblica? Mah.

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