Caro direttore,
l’altro ieri Mattia Feltri ha dedicato l’editoriale di Huffpost all’episodio bruttissimo di due avventori aggrediti con insulti e violenza fisica da una piccola folla in un Autogrill della Milano-Laghi, che li insultava con epiteti come “assassini”, ovviamente assassini di palestinesi posto che le vittime di questo tentato linciaggio non solo morale avevano il capo coperto con la kippah, ciò che li rendeva riconoscibili come ebrei. “Oggi ricomincia a tornare fra di noi l’antisemitismo della buona coscienza”. Ma come! potresti rincarare tu, ci sono organizzazioni umanitarie israeliane che accusano apertamente Netanyahu di genocidio e qui siamo ancora a questo antisemitismo d’accatto!
Non preoccuparti, direttore. Non ho nessuna intenzione di offrire il mio non richiesto contributo sul tema se sia peggio la guerra apparentemente di sterminio dell’esercito israeliano a Gaza o il rilancio dell’antisemitismo che dai resoconti di quanto accade nella striscia di Gaza e dintorni è senza dubbio alimentato. Ho scritto “apparentemente” non a caso: voglio segnalarti una lunga analisi a firma di Richard C. Schneider che la Neue Zürcher Zeitung di lunedì scorso ha dedicato a un aspetto piuttosto trascurato della guerra di Gaza, il largo margine di incertezza che i racconti di questa tragedia conservano. In un certo senso la NZZ fa un’operazione straordinaria (almeno per le consuetudini dei media mainstream): si pone dal punto di vista di un ipotetico lettore non prevenuto e non coinvolto nella guerra, sue conseguenze e ripercussioni. Dovrebbe essere la norma ma sai bene che lo stato dell’arte nell’“infosfera” è esattamente l’opposto. Perciò te ne scrivo.
“Che cosa sta facendo Israele a Gaza?”, si chiede il quotidiano zurighese, aggiungendo che questa domanda, che sono in tanti a farsi ogni giorno in tutto il mondo, non ammette nessuna risposta né semplice né univoca. “La situazione è estremamente complessa, caotica e caratterizzata da contraddittori resoconti, interessi politici e propaganda mirata contraddittori, e anche in misura crescente da contenuti generati dall’intelligenza artificiale che rendono quasi indistinguibile la realtà dalla sua falsificazione”.
Da queste considerazioni parte un’analisi sviluppata, con la precisione di un vecchio orologiaio del Jura, su tutti gli aspetti dei racconti di questa guerra che generano due set di verità parallele e quindi inconciliabili che finiscono per sovrapporre alla guerra guerreggiata la “guerra reputazionale”. Quest’ultima a oggi vede chiaramente vittorioso Hamas, per la semplice ragione che Hamas può far giocare a proprio vantaggio gli aspetti emotivi che si manifestano con le immagini e le suggestioni mentre lo sforzo di Israele di contrapporre all’onda emotiva dati razionali non può che risultare perdente, soprattutto quando lo Stato ebraico ricorre, per rivendicare il ruolo di “aggredito”, alla strage de 7 ottobre 2023 (che oltretutto, mi permetto di aggiungere, conserva aspetti non chiariti).
L’analisi è straordinariamente accurata ma non è il caso di riprodurla qui. Aggiungo solo, col tuo permesso direttore, due brevi considerazioni mie. La prima riguarda la scelta di Israele, e soprattutto di chi si sente schierato dalla sua parte, di “controbilanciare” la solidarietà filopalestinese ribattezzandola “antisemitismo”, benché si sia tutti consapevoli del fatto che gran parte di questa solidarietà non è animata da sentimenti antisemiti (la questione di che cosa, in termini di informazione, alimenti questa solidarietà è tutt’un’altra storia, ma il sistema dei media è quello che è e non è certo controllato da Hamas). Non solo ribattezzandola, ma anche esasperando la visibilità di episodi di antisemitismo che sicuramente ci sono. La seconda considerazione invece è una mezza domanda: siamo sicuri che questa tattica sia lungimirante?
Credo che rispondere affermativamente significhi dare per scontato che il tabù dell’antisemitismo in Occidente sia ancora vivo e vegeto come lo è stato per decenni a partire dall’ultimo dopoguerra. Ma è proprio un opinion maker non certo sospettabile della minima contiguità con nessuna forma di antisemitismo, Ezio Mauro, ad aver denunciato molti mesi prima di Feltri, su la Repubblica, l’appannamento (non ricordo le parole precise di Mauro) dei tabù di base del secondo dopoguerra. Però un conto è denunciare, un altro dimenticare che il declino di un tabù è un processo che non si ferma. O per meglio dire, lo si può anche fermare, ma solo con mezzi che preferisco non dover nemmeno immaginare. Mi limito a osservare che la tattica di enfatizzare gli episodi di antisemitismo ha buone probabilità di alimentare processi di imitazione, se pur ispirata alle migliori intenzioni del contrario. Ecco perché, da qualsiasi parte la si guardi, quella dell’Autogrill mi pare una bruttissima storia.