All’epoca dell’assassinio del presidente americano John Fitzgerald Kennedy, il 5 novembre 1963, era in carica in Italia, per gli affari correnti perché dimissionario, il primo dei due governi “balneari” di Giovanni Leone. Che pianse ricordando l’affettuosa accoglienza riservatagli pochi mesi prima a Roma e nella sua Napoli, in visita ufficiale. Pianse come “un bambino”, mi confidò lo stesso Leone perché nella solita accezione familiare che aveva anche dei rapporti politici, considerava quel giovane, promettente presidente americano un amico ormai di famiglia, appunto.
A poche centinaia di metri dall’ufficio di Palazzo Chigi si svolgevano a Montecitorio le trattative fra democristiani e socialisti per la formazione del primo governo “organico” di centro-sinistra, ancora col trattino, guidato da Aldo Moro. Esse furono interrotte per l’emozione anche politica provocata dalle drammatiche notizie provenienti dagli Stati Uniti. Con Kennedy alla Casa Bianca il percorso del centro-sinistra italiano era stato favorito, per quanto proprio sotto quella presidenza l’anno prima era stato vissuto il momento più pericoloso della guerra fredda con la cosiddetta crisi di Cuba, dove i sovietici volevano puntare i loro missili contro gli Stati Uniti dirimpettai.
All’epoca del ferimento del presidente americano allora in carica Ronald Reagan, il 30 marzo 1981, era in carica in Italia il governo di Arnaldo Forlani, inconsapevolmente prossimo alle dimissioni per l’affaraccio P2: la loggia massonica di Licio Gelli nelle cui liste – diffuse a singhiozzo dai magistrati attraverso giornali fino a quando lo stesso Forlani non decise di farle pubblicare per intero – era finito anche il prefetto Mario Semprini, suo capo di Gabinetto.
Forlani non aveva fatto in tempo a instaurare con Reagan, insediatosi alla Casa Bianca pochi mesi prima, un rapporto diretto e personale che avrebbero avuto invece i suoi successori Giovanni Spadolini e Bettino Craxi: sopravvissuti, quelli di Craxi, anche alla drammatica notte di Sigonella. Che li aveva portati quasi alla rottura per un equivoco – raccontò poi lo stesso Reagan – creatosi con la traduzione dell’italiano del presidente del Consiglio fatta, durante una tempestosa telefonata, dal consigliere Michael Arthur Ledeen. Che peraltro, lavorando all’ambasciata americana a Roma, aveva frequentato ogni tanto la redazione romana del Giornale fra il 1975 e il 1976 per farsi “spiegare” da noi – diceva lui con falsa modestia – gli aspetti più controversi o meno chiari dei rapporti fra democristiani e comunisti, in particolare fra Aldo Moro ed Enrico Berlinguer.
Forlani, dicevo, non aveva fatto in tempo a stringere rapporti molto stretti con Reagan, ma ne aveva buone informazioni. Fu lui a raccontare al telefono a Indro Montanelli, me presente, pochi giorni dopo l’operazione subìta da Reagan dopo l’attentato del 30 marzo 1981, in cui un proiettile gli aveva perforato un polmone e si era fermato a 25 millimetri dal cuore, la battuta del presidente ai medici che molto tempo dopo sarebbe uscita anche sui giornali: “Spero che siate repubblicani”, cioè elettori del suo partito. Una battuta che rese Reagan a Montanelli ancora più simpatico di quanto già non fosse come attore e come anticomunista.
Donald Trump, l’ex presidente americano in corsa per tornare alla Casa Bianca dopo l’uscente Joe Biden, è stato molto più fortunato di Reagan, che rischiò davvero la vita, ferito peraltro da un pazzo che aveva cercato di ucciderlo con sette colpi di pistola per farsi notare da un’attrice – Jodi Foster – della quale s’era invaghito. Roba appunto da pazzi, che gli procurò il manicomio sino al 2016, dodici anni dopo la morte di Reagan nel suo letto, come si dice nei casi di fine naturale.
Con quel sangue procuratogli di striscio da un proiettile del fortunatamente mancato assassino, eliminato all’istante, Trump non ha fatto tremare più di tanto i tifosi di cui dispone anche in Italia. E che possono contare – va riconosciuto pure questo – anche su parecchi avversari dell’ex presidente che o lo combattono con troppa esasperazione o aumentano le difficoltà del presidente uscente contribuendo, ancor più delle gaffe che commette di suo, ad una rappresentazione altamente negativa sollecitandone il ritiro dalla corsa, Un caso raro, direi, di autolesionismo. Di cui solo gli americani sono forse capaci con la mania, l’abitudine e quant’altro di fare le cose alla grande, come si dice.