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Raisi

Guerra Iran-Israele? Report Cesi

Il nodo gordiano è comprendere fin dove Israele voglia o possa spingersi senza incorrere in una mondializzazione del conflitto che spaventa tutti e che, almeno apparentemente, nessuno vuole. L'analisi di Giuseppe Dentice, Tiziano Marino ed Emmanuele Panero del Cesi (Centro studi internazionali)

 

Il giorno dopo la rappresaglia annunciata da parte dell’Iran nei confronti di Israele, rimangono aperte una serie di considerazioni e valutazioni di più ampio respiro che in qualche modo potrebbero suggerire una certa evoluzione dello scenario militare e politico regionale, quantomeno, nel breve periodo.

La rappresaglia da parte di Teheran contro il territorio israeliano è stata decisa in risposta allo strike aereo effettuato il 1º aprile dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) contro l’Ambasciata iraniana a Damasco, che ha ucciso 11 persone tra cui Mohammed Reza Zahedi, un alto ufficiale dei Pasdaran in Siria e uomo di collegamento tra le milizie iraniane ivi operanti e il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC).

L’ATTACCO VISTO DALL’IRAN

Dalla prospettiva iraniana, l’attacco di Israele contro la sede diplomatica viola la “linea rossa” posta dai vertici politici e militari dell’Iran secondo cui un coinvolgimento diretto nel conflitto regionale è giustificabile solo in risposta a un’aggressione diretta contro il territorio nazionale, di cui l’Ambasciata è di fatto parte. Di conseguenza, dopo l’azione delle IDF, la Guida Suprema e le IRGC hanno dovuto affrontare la pressione dei settori ultraconservatori usciti rafforzati dalle recenti elezioni parlamentari, i quali chiedevano una risposta immediata e muscolare, come quella appunto dello scorso 14 aprile.

L’attacco iraniano era stato diffusamente anticipato, incluso da uno specifico avviso statunitense lo scorso venerdì, nel quale si annunciava un rischio concreto di un’azione da parte della Repubblica Islamica verso il suolo israeliano entro 48 ore dall’informativa stessa. In particolare, gli iraniani hanno affermato di aver comunicato la propria volontà di rispondere il 2 aprile all’incaricato d’affari svizzero a Teheran e, successivamente, di aver scambiato informazioni anche con emissari di Oman, Turchia e Cipro. Anche gli attori regionali erano stati avvisati nelle ore precedenti all’avvio delle operazioni, secondo il Ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian.

I NUMERI DELL’OPERAZIONE TRUE PROMISE

L’operazione, denominata “True Promise”, ha coinvolto l’impiego di circa 170 droni d’attacco (OWA UAV – One Way Attack Unmanned Aerial Vehicle), 30 missili da crociera per attacco terrestre (LACM – Land Attack Cruise Missile) e 120 missili balistici (BM – Ballistic Missile), lanciati a definiti intervalli di tempo dall’Iran per convergere in modo sincronizzato su obiettivi militari israeliani soprattutto sulle alture del Golan e nel deserto del Negev, allo scopo di saturarne le difese aeree ed incrementare la possibilità di generare effetti sui bersagli. La totalità dei OWA UAV e dei LACM, nonché il 98% dei BM sono stati ingaggiati e neutralizzati da un ampio e composito dispositivo di difesa aerea comprendente non solo la dedicata architettura multilivello israeliana, composta dai sistemi David’s Sling, Iron Dome, Arrow 2, Arrow 3 e dai velivoli dell’Israeli Air Force (IAF), ma anche da un ampio insieme di assetti aerei, navali e terrestri, prevalentemente statunitensi, ma anche britannici, francesi e di Paesi regionali preventivamente schierati nell’area. Il significativo apparato di sorveglianza e difesa dello spazio aereo dispiegato ha inoltre permesso di abbattere la maggioranza dei vettori d’attacco prima che raggiungessero il territorio israeliano. Alcuni BM hanno comunque colpito la base aerea di Nevatim, nel Negev, provocando danni complessivamente limitati, mentre detriti di un missile intercettato hanno causato il ferimento di almeno un civile.

I RISULTATI

Partendo da questi elementi, potremmo dire che l’effetto desiderato da parte iraniano non è stato raggiunto se vi era una chiara volontà di offesa e causare danni importanti. Anzi, si potrebbe dire che l’azione iraniana si è limitata ad un fatto più eclatante nella forma ma poco incisivo nella sostanza. Nell’ottica di Teheran, però, la questione è definitivamente chiusa, tant’è che le autorità iraniane hanno ammonito ancora Israele a evitare nuove iniziative in futuro, ricordando che in quel caso la conseguente risposta sarà proporzionata e ancor più devastante. Inoltre, l’Iran, proprio in virtù dell’attacco a sciame su Israele del fine settimana, ha mostrato credibilità nella minaccia e una certa capacità militare dissuasiva, che ha rafforzato le potenzialità di deterrenza del Paese verso Israele e la regione nel suo complesso. In altre parole, Teheran ha salvato la faccia e ha dato una prova di forza reale rafforzando la sua attendibilità nei confronti dell’opinione pubblica interna e regionale. Un prestigio che inevitabilmente si riversa sia nella sua proiezione futura in Medio Oriente, sia nei confronti dei proxies-partner (Hezbollah, Houthi, Hamas, Jihad Islamico Palestinese, Resistenza Islamica irachena, etc..), i quali nel loro complesso rafforzano l’immagine e le capacità di deterrenza del cosiddetto “asse di resistenza” guidato da Teheran.

TUTTI SODDISFATTI?

Di fatto si potrebbe dire, che questo attacco in realtà soddisfa tutte le parti coinvolte: l’Iran per aver conservato e restaurato il suo prestigio, Israele per aver mostrato superiorità militare nella distruzione dei droni del nemico, gli USA e l’Occidente per aver coordinato un’azione in difesa di Tel Aviv. Al di là, però, delle prospettive e delle propagande incrociate a confronto, la sensazionalità dell’attacco ha mostrato alcuni elementi di riflessione più profondi. In primo luogo, si è trattato di un’azione senza precedenti che crea uno scenario inesplorato e rischioso per tutta l’area. Al contempo, però, proprio la tipologia di risposta iraniana allo strike israeliano del 1° aprile, suggerirebbe una scarsa volontà di Teheran di aprire una fronda militare diretta contro Tel Aviv che possa portare ad una guerra. Ad avvalorare ciò, vi sono elementi di varia natura che trovano una ratio nel contesto domestico iraniano: una crisi economica ancora forte e fiaccata dalle sanzioni internazionali; una situazione sociale interna ancora calda dopo i mesi di manifestazioni e proteste del 2022 a causa del caso Mahsa Amini; infine, un contesto politico incerto e potenzialmente divisivo a causa sia delle trasformazioni della società sia delle condizioni di salute dell’Ayatollah Alì Khamenei.

Quindi, in questa prospettiva, per Teheran la questione è definitivamente chiusa qui e, in un certo senso, anche per gli Stati Uniti, i quali hanno mostrato solidarietà e protezione all’alleato israeliano nelle scorse ore, ma hanno altresì espresso con fermezza qualsiasi contrarietà a “imbarcarsi” in qualsiasi avventura militare di Tel Aviv contro l’Iran. Se, come presumibilmente bisogna aspettarsi, per Israele, invece, la questione rimane aperta ed è al vaglio del gabinetto di guerra tutta una serie di valutazioni su come il Paese risponderà al lancio di missili e droni iraniani contro il suo territorio nei modi e nei tempi più opportuni, il Presidente Joe Biden ha chiaramente affermato che gli Stati Uniti non parteciperanno ad alcuna azione offensiva contro l’Iran.

COSA FARÀ ISRAELE?

Pertanto, ora la palla passa nel campo di Israele per capire cosa farà e in che modo reagirà a queste evoluzioni. Infatti, quanto accaduto nelle scorse ore, potrebbe essere una occasione politicamente ghiotta per il Premier Benjamin Netanyahu (piuttosto che per l’intero Paese) per distrarre il piano interno e internazionale da Gaza, colpire direttamente Teheran e ricompattare il fronte occidentale al suo fianco in una ipotetica escalation militare contro la Repubblica Islamica.

Anche in questo caso, la logica strategica del Paese deve confrontarsi con la razionalità strumentale della leadership politica israeliana, con Netanyahu (e una parte consistente del suo esecutivo) interessati a scatenare un conflitto senza quartiere tra Iran e Israele, in quanto rappresenterebbe un’ottima occasione per ricompattare il fronte (interno e internazionale) contro il nemico storico e vantare in un’ipotesi futura un qualche successo spendibile nella opinione pubblica israeliana dato che da Gaza non potrà giungere nulla di tutto ciò, viste le ripercussioni di immagine e reputazionali che Tel Aviv oggi sconta per l’operazione militare lanciata all’indomani del 7 ottobre 2023 nell’enclave palestinese. Un’occasione che permetterebbe, inoltre, al leader israeliano di conservare con le unghie il suo scranno di potere e allontanare le ipotesi di elezioni anticipate avanzate da Benny Gantz e dalle opposizioni, proprio perché un conflitto regionale di questo tipo renderebbe impossibile e inopportuno uno scenario elettorale del genere.

Una seconda rappresaglia israeliana, quindi, aprirebbe scenari ancora imprevedibili. È plausibile immaginare un’azione missilistica da parte di Tel Aviv in risposta all’Iran, sempre in un’ottica di non aprire in maniera sconsiderata il conflitto, però queste sono speculazioni che possono cambiare molto velocemente e aprire ad un nuovo ventaglio di opzioni. In ogni caso, una situazione simile permetterebbe di fatto una discesa in campo di USA ed Europa in favore di Israele; allo stesso tempo, sarebbe plausibile immagine una medesima reazione da parte dei partner internazionali dell’Iran, con Russia e Cina, disposti ad assistere il Paese, almeno diplomaticamente e contando sul forte divario che ormai è emerso con il folto ed eterogeneo gruppo di Paesi del Sud Globale, che continuano a ritenere incoerente l’Occidente per i suoi molteplici standard nell’affrontare crisi e guerre nel mondo. Già in queste ore, dopo aver sottolineato la gravità dell’attacco israeliano contro la sede diplomatica iraniana, Mosca e Pechino hanno ribadito, anche in sede ONU, l’invito agli attori regionali ad astenersi da azioni che potrebbero innescare un conflitto su larga scala.

Quindi il nodo gordiano è comprendere fin dove Israele voglia o possa spingersi senza incorrere in una mondializzazione del conflitto che spaventa tutti e che, almeno apparentemente, nessuno vuole.

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