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Ammettiamolo: l’Europa è un continente in ritardo

Considerazioni a margine della nuova National Security Strategy (NSS) appena uscita dalla Casa Bianca. L'intervento di Carlo Felicioni, ex direttore centrale in Mediocredito e consulente di finanza aziendale per le imprese

 

La nuova National Security Strategy (NSS) appena uscita dalla Casa Bianca ha suscitato scalpore in Europa per i toni duri nei confronti del nostro continente, ed in particolare per l’affermazione secondo cui il continente europeo sarebbe avviato verso un irreversibile processo che condurrebbe alla cancellazione della nostra civiltà (“civilisational erasure” è l’espressione usata da Donald Trump).

Giudizio questo che noi europei non abbiamo preso sul serio, orgogliosi come siamo della nostra civiltà millenaria, sviluppatasi ben prima della dichiarazione di indipendenza degli USA e della rivoluzione industriale. Noi europei non vediamo infatti alcuna connessione tra il fatto di vivere e godere delle nostre bimillenarie civiltà, e l’aggettivo declino, di competitività economica, del nostro continente rispetto agli altri USA e alla Cina.

Tuttavia, al di là di ogni questione identitaria, il documento statunitense ci rimanda indirettamente a una realtà difficilmente eludibile: l’Europa sta perdendo terreno rispetto a Stati Uniti e Cina nella competizione globale, in particolare a causa del ritardo accumulato in due ambiti decisivi come ricerca e sviluppo e intelligenza artificiale.

Negli ultimi anni la dinamica degli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) ha evidenziato una crescente divergenza tra Stati Uniti, Cina e Unione europea. Secondo dati OECD ed Eurostat, rielaborati dall’Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea (APRE), tra il 2017 e il 2022 la spesa in R&S è aumentata in maniera nettamente più sostenuta negli Stati Uniti (+75% nominale) e in Cina (+77%), mentre nell’Unione europea la crescita, pur positiva, si è fermata intorno al 25%.

Il ritardo europeo appare ancora più evidente nel campo dell’intelligenza artificiale, oggi fattore centrale per la competitività economica e la sicurezza. Secondo l’AI Index Report dell’Università di Stanford, nel 2022 gli investimenti privati in intelligenza artificiale negli Stati Uniti sono stati di gran lunga superiori a quelli dell’Unione europea, con un divario di diversi ordini di grandezza. Nello stesso anno, gli Stati Uniti hanno concentrato la quota più elevata degli investimenti globali privati in AI, mentre l’Ue ha attratto una frazione molto più limitata.

La tendenza si conferma sul medio periodo. Un’analisi del Servizio di ricerca del Parlamento europeo (EPRS) mostra che, tra il 2018 e il 2023, le imprese statunitensi operanti nel settore dell’intelligenza artificiale hanno raccolto oltre 120 miliardi di euro di capitali privati, a fronte di circa 30-35 miliardi di euro complessivamente raccolti dalle imprese dell’Unione europea nello stesso arco temporale.

Il risultato non è soltanto una differenza nei livelli assoluti di progresso nelle spese di R&S e AI tra le tre potenze mondiali, ma una divergenza strutturale di traiettoria, che tende ad ampliarsi nel tempo anziché ridursi.

Nel 2024 la quasi totalità dei modelli e dei brevetti di intelligenza artificiale nei campi di frontiera, con applicazioni strategiche in ambito economico, militare e di intelligence, è stata sviluppata negli Stati Uniti e, in misura minore, in Cina, mentre la presenza europea resta assolutamente marginale.

A questi dati quantitativi generali si affiancano indicatori qualitativi di particolare rilievo: per quanto riguarda i “modelli di frontiera” (i modelli AI più avanzati), secondo l’AI Index Report 2024 dell’Università di Stanford le istituzioni statunitensi rimangono “leader nella produzione di modelli di punta”: per esempio, nel 2023 le istituzioni USA hanno originato 61 “notable AI models”, contro 21 per l’Ue.

Nel dibattito europeo è diffusa invece l’idea che il soft power dell’Europa – inteso come attrattività culturale, forza dei valori e capacità di proiezione di un modello sociale – possa esistere e resistere in una dimensione relativamente autonoma rispetto alla potenza economica e tecnologica.

Ma l’esperienza storica suggerisce una lettura diversa. Che l’influenza culturale tende a consolidarsi quando è sostenuta da una solida base materiale: il sistema universitario statunitense e la diffusione del modello democratico americano si sono affermati nel mondo in parallelo alla supremazia economica, scientifica e tecnologica degli Stati Uniti, non indipendentemente.

Anche Cina e India investono in modo massiccio in università, ricerca di punta, piattaforme culturali e strumenti di proiezione simbolica, consapevoli che il progresso civile presuppone competitività economica, capacità innovativa e controllo delle tecnologie critiche. In questo senso, il soft power e la cultura appaiono come una naturale estensione dell’hard power e della competitività, piuttosto che un’alternativa a essi.

Ciò non implica che l’Europa stia perdendo la propria civiltà o il patrimonio di valori che la contraddistingue. Il rischio è di altra natura e riguarda la perdita di centralità. Un continente che non guida i principali processi di trasformazione economica e tecnologica finisce progressivamente per non essere più il luogo in cui si definiscono i criteri globali di ciò che conta: progresso, innovazione, razionalità, capitale umano. È in questo senso che, storicamente, le civiltà declinano: non scompaiono, ma diventano periferiche nel sistema mondiale, cessando di orientarne le traiettorie fondamentali.

Ed è quindi questo questo il senso in cui mi pare che debbano essere interpretate le principali analisi sulla competitività europea prodotte all’interno dell’Unione, dalla Bussola strategica formulata dalla Commissione europea del 2022 al più recente Rapporto Draghi sulla competitività del 2024.

In entrambi i casi, il ritardo accumulato in ricerca, sviluppo e intelligenza artificiale è riconosciuto come reale e potenzialmente grave, e viene interpretato come una sfida affrontabile attraverso investimenti comuni di maggiore scala, un mercato dei capitali più integrato e politiche industriali capaci di superare l’attuale frammentazione.

Resta tuttavia aperta la questione decisiva della capacità dell’Europa di tradurre questa consapevolezza in azione politica concreta. Le priorità e gli strumenti per colmare il divario competitivo sono delineati con chiarezza, ma rimangono in larga parte inattuati. Per i vincoli di governance, la frammentazione delle politiche industriali e la lentezza dei processi decisionali, l’Unione europea fatica a trasformare diagnosi condivise in interventi coerenti e di scala adeguata. Il rischio non è tanto l’assenza di una strategia, quanto l’incapacità di renderla operativa nei tempi imposti dalla competizione tecnologica globale.

Il Rapporto Draghi riconosce esplicitamente questa difficoltà, individuandone una causa strutturale nelle attuali regole di governance europea, concepite per garantire equilibrio e inclusività, ma poco adatte a sostenere scelte rapide e investimenti massicci in settori strategici. Regole che, nella loro configurazione attuale, rischiano di trasformarsi in uno svantaggio competitivo rispetto alle altre grandi potenze.

Il Rapporto suggerisce anche come è noto una via d’uscita politicamente realistica: il ricorso alle forme di cooperazione rafforzata, sul modello di quanto avvenuto con la creazione dell’euro, affinché, se non tutti gli Stati membri, almeno gruppi di Paesi possano concordare e attuare interventi ambiziosi e tempestivi nei settori cruciali della competitività tecnologica e industriale europea.

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