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Le ultime corbinate di Amleto Corbyn

Il punto di Daniele Meloni

Dopo che i sondaggi lo hanno accreditato addirittura di un disastroso quarto posto nel caso in cui si votasse oggi per Westminster, Jeremy Corbyn ha deciso di battere un colpo. Con una mossa a sorpresa – una delle tante a cui ci ha abituato – il leader laburista ha annunciato che il Labour chiederà un nuovo referendum sulla Brexit sia in caso di uscita con No Deal dall’Ue sia in caso di nuovo accordo negoziato dai Tories.

Così, dopo giorni in cui è il futuro leader dei Conservatori – e probabile futuro premier – Boris Johnson, a rubare la scena, Corbyn dà un cenno di vita, aggiungendo un nuovo tassello nel complicato mosaico partitico-istituzionale del Regno Unito.

Non si può certo dire che la svolta fosse nell’aria ma, di certo, molti deputati laburisti hanno fatto pressione sul loro leader perché prendesse una volta per tutte una posizione chiara sul tema Brexit, e rendersi così credibile agli occhi di un elettorato che non lo vede ancora come Primo Ministro in attesa. L’atteggiamento del Leader dell’Opposizione sul rapporto tra Europa e Regno Unito è stato ondivago, sin dalla campagna referendaria del 2016.

Tradendo l’ostilità provata in gioventù nei confronti dell’Unione Europea e del Mercato Comune, Corbyn ha fatto campagna per il Remain, facendosi vedere poco o nulla e mai accanto agli altri big della campagna, dal premier Cameron all’ex leader liberaldemocratico Ashdown, passando per gli ex leader laburisti Kinnock, Brown e Blair, suoi predecessori alla guida del partito. I dati sui flussi elettorali dimostrarono che circa un terzo degli elettori laburisti votò a favore della Brexit, specie nei grandi centri urbani.

La mossa di allora fu strategica: Corbyn, che da tempo si esprime con toni di disprezzo nei confronti di chiunque e di qualsiasi cosa che l’ha preceduto, voleva rimarcare la sua distanza dall’establishment che ha governato il Paese negli ultimi 20 anni. In realtà, il defilarsi in campagna elettorale nascondeva una preoccupante assenza di leadership sulla questione che determinerà il futuro del Regno Unito. Un’assenza di leadership che si accompagnava a un dilemma amletico: il Labour perderà o guadagnerà più voti schierandosi dalla parte della Brexit o dalla parte del Remain? To Brexit or not to Brexit? Questa è la questione! Già, perché se nei grandi centri urbani come Londra, Manchester e Liverpool il popolo si espresse in favore della permanenza nell’Unione Europea, nel nord del paese, nelle vecchie contee operaie vittime della deindustrializzazione gli elettori votarono in larga misura per la Brexit, premiando anche alle europee di un mese fa il Brexit Party di Farage.

Ed è così che Corbyn ha spesso tergiversato sul tema: in tv qualcuno ha contato il numero delle volte in cui ha evitato di rispondere alle fatidiche domande “Lei sosterrebbe un secondo referendum sulla Brexit? Se sì, farebbe campagna per il Remain?”. Per ben 21 volte di fronte al quesito il leader laburista ci ha girato intorno attingendo al repertorio di “supercazzole” – gli inglesi lo definiscono “gobbledygook”- che i politici, di tutti gli schieramenti, conoscono molto bene.

In realtà, anche se il focus sulla Brexit di questi ultimi anni ha evidenziato la guerra civile in casa conservatrice sul tema, la storia dei rapporti tra Unione Europea e Uk ha sempre creato tensioni anche in casa laburista. Da Herbert Morrison, che alla fine degli anni ’40 bocciò l’ingresso del paese nella CECA sostenendo che “i minatori di Durham non l’avrebbero mai accettato”, a Hugh Gaitskell, il leader che voleva rinnovare il partito su basi socialdemocratiche ma fuori dalla CEE, passando per gli anni dell’eurofobo Michael Foot e per la scissione di Roy Jenkins (forse il politico britannico più filoeuropeo), anche in casa laburista l’Europa è stata spesso utilizzata come pretesto per regolare i conti interni tra le correnti del partito. Come quando il camaleontico Harold Wilson sostenne il “Yes” nel referendum del 1975 per assestare un colpo ai suoi rivali di sinistra che lo volevano sostituire. O come, più recentemente, il filoeuropeo Blair propose un referendum sull’ingresso dello Uk nell’euro prima di essere fermato da Gordon Brown, allora nettamente contrario a un maggior coinvolgimento nelle faccende europee.

Corbyn gioca il jolly del “People’s Vote” proprio quando i LibDems, l’unico partito autenticamente europeista britannico, sembravano avere rialzato la testa e soffiato al Labour gli elettori pro-Remain. Il gioco gli varrà la candela? Tra qualche elettore perso, e qualcuno recuperato, il leader laburista coronerà la sua ambizione di entrare dal numero 10 di Downing Street come Primo Ministro?

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