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Tempelhof

Cosa è rimasto dell’aeroporto di Berlino-Tempelhof, cent’anni dopo

L'aeroporto Tempelhof di Berlino ha festeggiato i suoi primi cento anni, anche se ormai è in pensione da sedici, da quando nel 2007 venne celebrato il suo funerale con una cerimonia più triste che solenne. Il reportage di Pierluigi Mennitti.

Sulla lunga scia d’asfalto di una delle due piste di decollo e atterraggio scivolano fanatici dello skateboard, sportivi su pattini a rotelle, ciclisti disattenti, comitive con le sporte per i picnic, bimbi con genitore al fianco e aquilone al guinzaglio, deliziose nonnine aggrappate tenacemente al deambulatore. C’è posto per tutti sul vecchio tracciato dell’aeroporto di Tempelhof.

Dove una volta rombavano i motori dei Rosinenbomben, gli aerei alleati che nel 1948 laceravano dal cielo il blocco di Berlino Ovest voluto da Stalin, ora si estende un campo infinito di quasi 400 ettari. Lo chiamano parco, anche se del parco ha poco o nulla: non un albero, né un percorso botanico, neppure un’aiuola. È un enorme spazio indefinito sul quale vengono proiettate visioni urbanistiche della Berlino futura, puntualmente destinate a svanire.

Perché ogni idea di insediamento abitativo è naufragata di fronte alle proteste dei cittadini. In realtà ai berlinesi pare che lo spazio di Tempelhof piaccia così com’è, un non-parco strappato alle tentazioni degli speculatori dove riversarsi nel tempo libero senza troppe pretese. Una sorta di luogo fuori pianificazione, un immenso grande buco inedificato nel mezzo (o quasi) della metropoli, a tardiva memoria dei tanti spazi liberi urbani colmati dalla furia costruttiva che ha contagiato i pianificatori dalla caduta del Muro. Se si vuole, una reazione dal basso alle decisioni non condivise degli amministratori, una sfida carica di scetticismo alla politica rappresentativa.

I berlinesi lo assaltano ogni fine settimana. I suoi hangar e i saloni di imbarco sono periodicamente sede di piccole fiere, alcune aree più decentrate sono state trasformate in centri di accoglienza per le migliaia di profughi che raggiungono Berlino, un centro culturale vi organizza spettacoli teatrali e di danza, i suoi ampi spazi esterni ospitano in primavera ed estate concerti e happening che richiamano decine di migliaia di giovani.

Ma il fantasma dell’aeroporto è sempre lì, simboleggiato dall’enorme terminal ormai cristallizzato dal vincolo di tutela di bene culturale, e da un paio di aerei d’epoca sfiatati come balene spiaggiate sul piazzale di fronte ai vecchi gates.

Il Berlin Tempelhof Flughafen ha festeggiato i suoi primi cento anni, anche se ormai è in pensione da sedici, da quando nel 2007 venne celebrato il suo funerale con una cerimonia più triste che solenne. Il vecchio Tempelhof non serviva più e sarebbe stato il primo dei tre aeroporti storici a chiudere i battenti per far posto al nuovo scalo fuori dalla città. Che poi ci siano voluti quasi quindici anni per l’inaugurazione del Willy Brandt è in fondo un’altra storia.

Il programma delle celebrazioni è stato vasto: cinque giorni tra party in stile Anni Venti, proiezioni di film, presentazioni di libri, concerti, spettacoli con Dj e dirette radiofoniche, oltre ovviamente a nutrite offerte per bambini. Ora che se ne celebra il centenario, tutti ricordano la frase dell’architetto Norman Foster che lo definì “la madre di tutti gli aeroporti”. Qui Berlino ha scandito le epopee e soprattutto i drammi del suo Ventesimo secolo. Tempelhof nacque di fatto nel 1923 da uno spiazzo per gli esordi dell’aviazione civile e militare di inizio Novecento e fu impreziosito nel 1927 da un piccolo edificio per le partenze. La megalomania di Adolf Hitler lo trasformò negli anni Trenta nell’aeroporto del Terzo Reich, con il sontuoso terminal ora finito sotto tutela artistica. Orgogliosi l’occuparono i sovietici nella battaglia di Berlino per poi cederlo agli americani nella spartizione della città.

Agli statunitensi piaceva questo piccolo gioiello architettonico. Le due piste erano perfette per i velivoli dell’epoca, si atterrava e si rombava fino al grande piazzale ad arco che replicava la struttura centrale del terminal. Così cominciò l’era americana di Tempelhof. Da quelle piste partì il primo volo dell’American Overseas Airlines, che inaugurò nel maggio 1946 la linea  per New York: l’alba di una nuova era.

Ma la fama di Tempelhof doveva ancora conoscere il suo apice, il momento che resterà impresso sui libri di storia: il ponte aereo. Per oltre un anno, dal giugno 1948 a fine settembre 1949, 278.228 aerei decollati dagli aereoporti di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna vi scaricarono 2.326.406 tonnellate di carbone per riscaldamento, cibo, forniture, macchinari e medicinali. Le foto dei berlinesi assiepati sulla collinetta antistante le piste di atterraggio, con le mani alzate al cielo in segno di saluto, testimoniano l’emozione del momento.

Lo sviluppo dei grandi aerei intercontinentali ne segnò il tramonto, relegando l’aeroporto a scalo regionale. Il colpo di grazia arrivò però dalla caduta del Muro: la nuova capitale voleva dotarsi di un nuovo aeroporto moderno. Dei tre scali della Berlino della Guerra Fredda (due a ovest, uno a est) solo Tempelhof però chiuse in anticipo i battenti. Gli altri due (Tegel e Schönefeld) sono rimasti in attività fino a tre anni fa, perché l’inaugurazione del nuovo scalo intitolato a Willy Brandt si è trascinata scandalosamente dal 2011 al 2020. Vista dagli aquiloni di Tempelhof, è parsa una perfida vendetta.

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