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Berlusconi

Addio a Pino Scaccia, vero cronista di razza

Pino Scaccia, maestro degli inviati speciali Rai sul fronte italiano e estero, morto a 74 anni, era uno con il passaporto sempre in tasca, pronto a immergersi in tutti i più importanti eventi italiani e internazionali: perché la notizia, i fatti, vengono prima di tutto

Pino Scaccia, un inviato molto speciale. Anzi, il vero inviato speciale, come recita la definizione da contratto. Ovvero, il giornalista “vecchia maniera”. Ma quello che dovrebbe essere sempre di attuale maniera, in una professione che si è un po’ persa nel pur utile circuito web-tv-talk-social. Dove però per paradosso il rappresentante della pubblica opinione, al cui servizio è chiamato, diventa a volte lui stesso la pubblica opinione in uno schema capovolto, nel quale il giornalista viene prima della stessa realtà che deve raccontare, fino al rischio di autoreferenzialità, in cui ci si parla addosso tra addetti ai lavori.

Pino, maestro degli inviati speciali Rai sul fronte italiano e estero, scomparso l’altro ieri a 74 anni per Covid, era uno con il passaporto sempre in tasca, pronto a immergersi in tutti i più importanti eventi italiani e internazionali. Era come un attore che si identificava con gli eventi, quasi sempre drammatici, proprio per poterli raccontare meglio, perché la notizia, i fatti, vengono prima di tutto, i personaggi, le situazioni vanno dati al telespettatore o al lettore in tutta la loro complessità, le loro sfaccettature. E per questo Pino, vero cronista di razza, viveva con passione la vita degli altri, per poterli restituire al telespettatore come davvero sono.

A costo di scarpinare, studiare, aguzzare l’ingegno per giorni per arrivare allo scoop. In uno schema dove il giornalista, inviato speciale, è colui che sta dietro, da attore e regista, non certo da mero registratore dei fatti, a quella realtà che deve essere sempre la vera protagonista.

Ho conosciuto Pino ventuno anni fa a Tunisi, da inviata speciale, allora per L’Unità, diretta da Peppino Caldarola, sugli ultimi mesi di vita e l’agonia di Bettino Craxi. Dopo anni di silenzio, in cui nelle redazioni dei giornali i famosi fax di Craxi dall’esilio di Hammamet venivano quasi sempre gettati nel cestino, sul “Caso C. ” si erano riaccesi tutti i riflettori delle Tv e dei giornali italiani e esteri. Accadde una mattina dell’ottobre 1999 in cui lo statista socialista fu ricoverato prima alla clinica Les Violettes di Hammamet, poi per le sue gravi condizioni all’ Hopital Militaire di Tunisi, il meglio che la Tunisia dell’allora presidente Ben Ali potesse mettere a disposizione del paziente italiano, ex premier.

In Tunisia siamo stati settimane e settimane, forse un paio di mesi, tra andate e ritorni. Pino era sempre all’erta, mangiava di corsa, il telefono incollato all’orecchio, saltava di qui e di là. Nella lettera , ripubblicata ieri dal sito “Articolo 21”, in morte della moglie Rosaria, avvenuta due anni fa, ricorda quando lei lo raggiunse in Tunisia e certe nottate passate sotto l’ospedale con Stefania. Pino scrive di Rosaria e la figlia di Craxi che parlavano del diabete malattia cronica di entrambi i padri. Ma lui non stava lì appostato solo per servizio, stava lì anche per la sua empatia con gli altri, per il suo partecipare istintivo ai loro drammi e tragedie. Un’empatia che era però il suo stesso lavoro, ovvero la sua vita, la passione della sua vita. Come quella di un vero inviato speciale.

Ho ancora davanti la scena in cui ci portò tutti (c’erano anche Gianni Pennacchi, inviato del Giornale e altre firme della carta stampata) nella sua stanza all’ Hotel Abou Nawas, per vedere e commentare insieme, scambiandoci informazioni e impressioni, le “aperture”, cioè la prima notizia, dei vari Tg italiani sull’ultimo ricovero di Craxi, l’ingresso in macchina con il collaboratore Nicola Mansi che guidava, Stefania seduta sul sedile posteriore. Le ultime parole, prima dell’operazione a alto rischio, che Craxi affidò a Luigi Fenderico di Mediaset. Pino guardava e riguardava il suo intenso servizio per il Tg1, scrutava le immagini, ci chiedeva pareri. Ci dava le sue impressioni soprattutto utili a quel punto a noi della carta stampata che dovevamo scrivere per il giorno dopo. Amava il lavoro di squadra, confrontarsi con tutti i colleghi per ricavare spunti anche da loro. Poi, via da Tunisi, passaporto pronto, per altri importanti reportage in giro per tutto il mondo, su altri fronti. Ieri lo hanno ricordato in molti, moltissimi.

Ma forse Pino meritava anche di più in tutto quel frullatore a volte impazzito e autoreferenziale in cui è precipitata l’informazione. Un inviato molto speciale. Vecchia maniera? Ma questa forse dovrebbe essere l’unica maniera. Per far capire e anche anticipare fatti e fenomeni.

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