Gian Paolo Ormezzano era Google prima di Google: sapeva tutto, si ricordava di tutto, era stato ovunque tranne che in Antartide e per questo non aveva scritto di polo.
Raccontava Coppi alla figlia di Coppi e Enzo Bearzot al mondo, scriveva di Enzo Ferrari al posto di Enzo Ferrari e di Boniperti e Sivori al posto di Boniperti e Sivori, e di Trapattoni e Platini (al quale correggeva il francese) al posto di Trapattoni e Platini, perché era l’intelligenza sentimentale, una cosa più affascinante dell’intelligenza artificiale.
Aveva duemila racconti su Gianni Agnelli pur essendo il più grande dei tifosi del Torino nella storia dei più grandi tifosi del Torino e tra i duemila lavori fatti era il ghost di “Hurrà Juventus”, per dire che era un uomo con mille voci dentro e tutte divertenti, aveva persino scritto un romanzo erotico in francese. E poi aveva milioni di episodi omerici su chiunque avesse anche solo passato dieci minuti con lui.
Assistere a un evento sportivo con Ormezzano significava perdersi l’evento sportivo perché apparteneva ai sovrappositori battezzanti: quelli capaci di riscrivere la realtà – sportiva e no – con racconti molto più interessanti.
Era nella stanza di Fausto Coppi in quel capodanno (1960) nel quale il campionissimo agonizzava, era a tutte le Olimpiadi dagli anni Sessanta ad oggi, a tutti i Mondiali di qualunque sport e sempre con il migliore: che fosse Vittorio Pozzo, Dino Buzzati, Paolo Monelli o i tre Gianni: Arpino, Brera, Mura e se loro erano il verbo, lui era l’aggettivo; seguono mille pagine di tavolate, trasvolate, ricerche e soprattutto scrittura veloce.
Era bravissimo nell’oralità, telegrafava al presente e al futuro, poteva scrivere lo stesso evento da dieci punti di vista perché era un bulimico non solo degli sport, ma soprattutto della vita, tanto che aveva diviso gli scrittori di sport in tre grandi categorie: i cantori, gli studiosi, i pornografi, segue libro, naturalmente. E lui si spalmava come burro sulle tre categorie, mentre incasellava tutti quelli che ci hanno raccontato qualunque sport dalle bocce allo sci nautico. Era esagerato. E come tutti quelli che esagerano era generoso, tanto da poter rimproverare a Enrico Berlinguer di seguire la Juventus (Io vengo pagato, lei no. Perché lo fa?).
Era rimasto fulminato dal passaggio delle bici al primo Giro d’Italia dopo la guerra e si era lasciato corrompere dalla fuga dei ciclisti. Paesaggi, fatica, corse, piaghe, puzza, sforzi, e poi cene e prime pagine da riempire: si poteva essere Hemingway senza fucile. Doveva tutto ad Antonio Ghirelli che ne intuì le potenzialità e lo spedì per il mondo come un pacco postale. Il resto lo fece da solo: piedi, voce, parole. Fu capace di farsi mandare a Cape Canaveral, nel 1969, per la missione di Apollo 11: perché comunque era il salto in alto più importante della storia dell’umanità.
Tutto diventava sport, perché la lente dello sport contiene tutto. Ha attraversato i giornali italiani e la storia del Paese con la leggerezza di un ragazzino immortale. Correva per raccontare e raccontando correva. Un minatore del tempo, quando sembrava che avesse detto tutto cominciava a scavare ed usciva l’oro, le storie minori dimenticate: Abebe Bikila in sedia a rotelle ad Addis Abeba al posto di quello che vince scalzo a Roma, la sua prima Vasaloppet (sci di fondo), o la prima Tienanmen pre-rivoluzione culturale. Il mondo ridotto a pagina. La pagina dilatata a mondo.