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Perché l’accordo Ue-Uk non risolve i problemi di Brexit

La Brexit non è soltanto una questione non economica o commerciale, ma si è irrigidita diventando un problema ontologicamente politico e ideologicamente identitario. Estratto dalla newsletter Appunti di Stefano Feltri.

L’inizio di “una nuova era nei rapporti con l’Unione europea” e “il ritorno sulla scena mondiale del Regno Unito”. Non ha lesinato parole grosse Keir Starmer alla conferenza stampa di lunedì 19 maggio dove, insieme a Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, e Antonio Costa, presidente del Consiglio Europeo, ha presentato i risultati del primo “storico” vertice Regno Unito-UE.

“È ora di guardare avanti” e di lasciarsi alle spalle “i vecchi dibattiti stantii e le lotte politiche”, ha continuato il primo ministro: “È proprio questo il senso dell’accordo: tornare ad aprirsi al mondo, nella grande tradizione di questa nazione. Costruire le relazioni che scegliamo, con i partner che scegliamo, e concludere accordi nell’interesse nazionale.”

La Brexit è dunque un problema del passato? Non esattamente.

Starmer ha mostrato finora di essere a suo agio più con l’ambiguità, che a volte funziona, che con posizioni schiette e tagliate da slogan d’impatto. Quello era lo stile di chi, Boris Johnson, ha condotto il paese nella melma in cui si trova ora.

La Brexit non è soltanto una questione non economica o commerciale, ma si è irrigidita diventando un problema ontologicamente politico e ideologicamente identitario.

In questo quadro il Brexit reset, come Starmer ha indicato essere la ratio del nuovo accordo, l’ambiguità regna sovrana: può infatti essere interpretato come un “scusate per la Brexit”, per la quale il Regno Unito fa ammenda pur senza ammetterlo esplicitamente e fa concessioni significative per trasformare un accordo commerciale scheletrico in legami più solidi. Che se vista dalla prospettiva dei più accaniti brexiteer diventa un eclatante “tradimento”.

Oppure, come il Cancelliere dello Scacchiere Rachel Reeves lo ha definito nebulosamente, un “passo verso una collaborazione più stretta in ulteriori ambiti”. In questo caso gli orfani dell’europeismo possono iniziare a sperare in un effettivo riavvicinamento.

Oppure, infine, si tratta più che altro di un gioco di equilibrio, in cui il Regno Unito che nelle ultime settimane ha stilato accordi con India e Stati Uniti cerca anche in questo caso di ottenere il meglio riproponendo lo storico realismo politico britannico.

Una Gran Bretagna ‘corsara’ insomma, che stipula patti diversi nei quali, dicendo a tutti ciò che vogliono sentirsi dire, “dimostra – insisteva Starmer in conferenza stampa – che non si tratta di una scelta binaria tra USA e Ue”.

La portata limitata e i termini talvolta avari di questi accordi, compreso quello con l’Ue – frutto di dolorose concessioni – testimoniano piuttosto la posizione profondamente debole e vacua in cui si trova il Regno Unito.

Lungi dall’essere un attore libero e agile in grado di concludere accordi opportunistici, come avevano predetto dai sostenitori della Brexit – un miraggio facilmente smontato nei mesi successivi l’uscita effettiva – la Gran Bretagna si è ritrovata invece schiacciata su tutti i fronti, tra una Ue mercantilista e una America predatoria, e sta annaspando per restare a galla.

Cosa prevede l’accordo con l’Ue?

L’accordo appena siglato con l’Ue, così come i precedenti, rappresenta una prova concreta della ritrovata abilità diplomatica del governo britannico; e di Starmer, in particolare, che da quando è stato eletto ha trotterellato in giro per l’Europa e il mondo nel tentativo di ricordare a tutti l’esistenza del Regno Unito.

Starmer si era nettamente schierato contro l’uscita dalla Ue nel referendum del 2016 e appena eletto nel luglio scorso aveva promesso di riallacciare i rapporti e avviare un dialogo più costruttivo con i “vicini di casa”, i quali restano tuttora il maggiore partner commerciale del paese. L’alleanza con la UE sul sostegno all’Ucraina e lo scompiglio provocato dall’arrivo a Washington di Trump hanno accelerato il riavvicinamento fra Londra e Bruxelles; ma Starmer resta molto cauto, nell’ambiguità appunto.

Il nodo più rilevante del Brexit reset riguarda sicurezza e difesa: Londra potrà accedere al fondo europeo da 150 miliardi per il riarmo, mentre si apre la possibilità per le sue forze armate di partecipare a operazioni congiunte Ue. Sul fronte energetico, la Gran Bretagna rientra nel mercato europeo dell’energia. Intesa anche sull’acciaio: Starmer ha dichiarato che l’accordo proteggerà i produttori britannici dai dazi Ue.

Restano invece da definire i dettagli su altri due fronti: la semplificazione delle regole per l’import/export e la mobilità giovanile e universitaria.

Londra ha respinto l’equiparazione delle rette universitarie, ma si è detta aperta a un’intesa limitata. In questo caso è solo una questione di tempo.

L’università inglese è al collasso e l’arrivo potenziale di studenti europei darebbe un po’ di ossigeno. Sul turismo, i britannici potranno di nuovo usare i varchi elettronici negli aeroporti europei. Una concessione al limite del comico, ma che ci dice molto sulla miriade di implicazioni, anche le più banali, che la Brexit ha introdotto.

Per consolidare il dialogo, Londra e Bruxelles terranno summit annuali. “C’è fiducia reciproca”, ha detto Antonio Costa, presidente del Consiglio UE. Insomma, si volta pagina e la Brexit 2.0 sarà molto diversa.

Il governo britannico stima che l’accordo con Bruxelles porterà benefici economici per quasi 9 miliardi di sterline all’anno entro il 2040. Ma l’impatto sul Pil sarà modesto: solo uno 0,2 per cento in più. Un dato che si confronta con la perdita stimata del 5,5 per cento del Pil causata dalla Brexit, secondo il Center for European Reform.

Per arrivare all’intesa con l’Ue, Starmer tuttavia ha dovuto cedere su un tema politicamente delicato: concedere ai pescherecci europei l’accesso alle acque territoriali britanniche per 12 anni.

Difficile non considerarlo un ‘tradimento’ della Brexit, svendendo i pescatori britannici in cambio di un accesso facilitato per i prodotti alimentari destinati al mercato europeo. Reform, il partito anti-sistema di Nigel Farage, il vero vincitore politico dell’ultima tornata elettorale amministrativa, sta già scaldando i motori.

Il lungo post-Brexit

Ma come era andata dopo la Brexit? Male. L’incertezza legata al lungo processo di uscita dall’Ue ha inciso negativamente su produttività, inflazione, fiducia dei consumatori e tassi di interesse. Il Pil pro capite ha smesso di crescere, mentre il deprezzamento della sterlina ha ridotto i redditi reali, penalizzando i consumi.

Il mercato del lavoro ha inizialmente beneficiato di una disoccupazione in calo, ma a partire dal 2021 la situazione si è invertita, con un aumento della disoccupazione e una crescente carenza di manodopera. Anche i salari reali hanno subito una contrazione, i consumi si sono ridotti e le esportazioni non hanno compensato.

Certo la pandemia e la crisi ucraina e il conseguente picco dell’inflazione non hanno aiutato. Ma ormai è chiaro a tutti, anche all’opinione pubblica che la Brexit di benefici ne ha portati pochi. Un recente sondaggio di Yougov stima che un 62 per cento dei britannici è a favore di un riavvicinamento e più stretta collaborazione con l’UE.

Starmer, però, non può assecondare troppo la tendenza urbana e progressista del “Rejoin”. Deve dimostrare che il Regno Unito trarrà vantaggi concreti e inequivocabili da questo riavvicinamento. Deve presentarla come una scelta pragmatica e di “buon senso”.

E questo, forse, ci aiuta a spiegare la nuova politica sulla gestione dei flussi migratori presentata dal primo ministro sempre di lunedì, sempre in una conferenza stampa, la settimana precedente all’accordo con l’Ue.

La riforma presentata in una pomposa conferenza stampa lunedì 12 maggio dovrebbe defalcare drasticamente i flussi migratori nel Regno Unito. Ogni primo ministro negli ultimi 20 anni ne ha avuta una; la versione di Starmer non si differenzia nella sostanza dalle precedenti. E questo è il primo problema.

Il nodo centrale consiste in una netta riduzione dei numeri: si limitano i ricongiungimenti familiari, si restringe la permanenza degli studenti dopo la laurea – un dato che va in contraddizione con le ipotesi di mobilità giovanile in agenda nell’accordo con l’Ue – si impongono livello di inglese e titolo di studio – il famoso “mito del lavoratore altamente qualificato”. Insomma, il solito pacchetto.

Per gli italiani che vivono nel Regno Unito poi, una sorta di nemesi: mentre noi si cerca – giustamente – con il referendum del prossimo 8 e 9 giugno di dimezzare gli anni di residenza necessari per richiedere la cittadinanza, la proposta di Downing street è l’esatto opposto, raddoppiarli da 5 a 10.

I numeri variano a seconda delle statistiche, ma rimangono significativi: negli ultimi cinque anni almeno 1,5 milioni di nuovi lavoratori del Regno Unito sono arrivati da altri paesi. Molti analisti ritengono tuttavia che questa ennesima riforma non farà una grande differenza. Il punto, però, non sono i numeri: è il tono scelto da Starmer e i rimandi che il suo discorso non ha nemmeno cercato di celare.

Il passaggio chiave del discorso pronunciato da Starmer – “senza regole rischiamo di diventare un’isola di estranei, non una nazione che avanza unita” – è non solo una legittimazione alle litanie sulla presunta liquefazione nazional-identitaria, un topos di Nigel Farage, ma ammicca anche al famigerato “Rivers of Blood”, il discorso che Enoch Powell tenne in Parlamento nel 1968.

Durante il dibattito sulla prima legge che vietava la discriminazione razziale, citando un passo dell’Eneide Powell prediceva distruzione sociale e culturale se non si fosse posto un limite alle migrazioni; il rischio era quello di “ritrovarsi stranieri nel proprio paese”. Difficile non fare l’associazione. Difficile ritenere che Starmer non se ne sia reso conto.

Sgombriamo subito il campo dall’idea che quella del governo sia stata una risposta scomposta e in preda al panico per la vittoria di Reform alle elezioni dello scorso 1° maggio, come forse qualcuno si è affrettato a commentare.

Per costruire un White Paper organico come quello presentato serve tempo, ricerca, strategia.

La riforma sui flussi migratori era pronta da tempo, solo in attesa del momento giusto. Ed è stata lanciata la settimana prima del Brexit reset, quasi a voler ammorbidire le aperture che stavano per arrivare. O un tentativo di placare sul nascere le denunce che sarebbero arrivate per aver tradito la volontà popolare, per aver vanificato la Brexit.

(Estratto da Appunti)

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