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Usa Cina

Perché l’Europa, dopo Aukus, deve scegliere con chi stare

Dopo l'accordo Aukus l'Europa non ha più spazio per l'ambiguità: deve scegliere con chi schierarsi, con gli Stati Uniti oppure con la Cina. L'analisi di Federico Punzi su Atlantico Quotidiano.

Da qualche tempo il presidente francese Macron non fa che prendere ceffoni, reali e metaforici. L’Eliseo ha reagito con una vera e propria crisi di nervi all’annuncio della partnership Aukus (Australia-Regno Unito-Stati Uniti), che per Parigi significa non solo la perdita del contratto da 56 miliardi per la fornitura dei suoi sottomarini a Canberra, ma anche lo smacco dell’esclusione dal sistema di sicurezza dell’Indo-Pacifico che Washington sta ridisegnando per fermare l’espansionismo cinese.

Macron ha richiamato i suoi ambasciatori in Australia e Stati Uniti per “consultazioni immediate”. Cancellata dall’ambasciata francese a Washington la celebrazione dell’amicizia franco-americana in memoria della Guerra di Indipendenza Usa combattuta fianco a fianco contro gli inglesi 240 anni fa.

L’accordo è stato definito da Parigi “una pugnalata alle spalle”, ma non è che ai loro alleati i francesi avessero dato ampio preavviso quando nel 1966 decisero di ritirarsi dal comando integrato della Nato.

Quanto accaduto “peserà sul futuro della Nato”, ha tuonato sabato il ministro degli esteri Le Drian, accusando Biden di comportarsi come Trump, ma senza tweet. Insomma, a Parigi non hanno ancora smaltito la rabbia… Cose che capitano, quando si passa il tempo a vaneggiare di esercito Ue e autonomia strategica…

Due figure finora incontestabili della recente mitologia europeista, nate in risposta agli shock Brexit e Trump, si sono sgretolate contro l’annuncio della partnership Aukus. La prima: che i dissidi tra Stati Uniti e Unione europea, che avevano portato i massimi leader Ue, per prima la Merkel, a dichiarare che noi europei non potevamo più fidarci degli alleati Usa e Uk, e che avremmo dovuto imparare a “fare da soli”, fossero colpa di Trump e della sua ostilità nei confronti dell’integrazione europea.

Il sostegno del nuovo presidente Usa al progetto Ue e la sua amicizia verso l’Europa sono fuori discussione, eppure gli schiaffoni arrivati da Washington nell’arco di pochi mesi – dalle modalità del ritiro dall’Afghanistan all’accordo Aukus – fanno impallidire quelli della presidenza Trump.

Se gli europei non possono più fidarsi degli Usa non solo con Trump ma nemmeno con Biden alla Casa Bianca, dovrebbe sorgere il sospetto che forse sono gli americani a non fidarsi più dell’Europa. Prima era Trump, ora Biden… prima ancora erano Bush e Rumsfeld (che Obama ci snobbasse non si poteva nemmeno sussurrare). Non vi viene il dubbio che forse il problema siamo noi?

Il secondo tabù infranto dall’accordo Aukus è che uscendo dall’Ue, lungi dal riconquistare la sua vocazione globale, il Regno Unito si sarebbe condannato ad una triste condizione di isolamento internazionale. Nulla di più falso, come con Daniele Capezzone e altri autorevoli autori avvertivamo nel libro “Brexit. La Sfida” (Giubilei Regnani, 2017).

Al contrario, Aukus mostra allo stesso tempo l’irrilevanza Ue e una recuperata libertà d’azione e centralità di Londra, che fuori dalle logiche e dalle pastoie continentali può giocare un ruolo da protagonista nell’Anglosfera e, all’interno di essa, rilanciarsi come media potenza dalla proiezione però globale.

L’intesa tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia, ha sintetizzato Wolfgang Munchau, “mostra che l’Ue ha sopravvalutato Biden e sottovalutato Johnson – una cattiva combinazione”.

Mentre a Bruxelles, a Parigi e persino a Roma (molto meno a Berlino) si vaneggia di esercito Ue dopo il disastroso ritiro Usa dall’Afghanistan (come se i Paesi europei fossero così desiderosi, allora, di andare e, oggi, di restare…), Washington, Londra e Canberra mostrano le potenzialità di una integrazione ancora più profonda tra le democrazie dell’Anglosfera sotto il piano militare, della difesa comune e della condivisione delle tecnologie, come ha ben spiegato il nostro Daniele Meloni. Un’integrazione nel segno del pragmatismo e della flessibilità operativa.

Qualche commentatore oggi si accorge che forse il problema tra Usa e Ue non era Trump, ma su Atlantico Quotidiano lo scriviamo da anni, praticamente da quando abbiamo avviato le nostre pubblicazioni.

Dai primi anni Duemila abbiamo assistito ad una accelerazione del processo di disallineamento strategico dell’Ue a guida franco-tedesca dall’alleato americano, iniziato lentamente dalla fine della Guerra Fredda e dall’unificazione tedesca. Il progressivo disallineamento ha provocato scossoni gestibili di fronte alla minaccia asimmetrica del terrorismo islamico, ma con l’insorgenza di un rivale strategico, sistemico, come la Cina, è divenuto semplicemente insostenibile.

Nella storia l’emergere di nuove superpotenze ha sempre forzato un riallineamento delle alleanze politiche e militari. Ora che gli Stati Uniti hanno assunto consapevolezza, grazie alla presidenza Trump, di quanto l’ascesa di Pechino rappresenti una minaccia concreta alla loro leadership globale e all’ordine internazionale, si aspettano un riallineamento degli alleati. La ricreazione è finita. Alcuni hanno risposto presente all’appello, l’Europa no. Dapprima, nascondendosi dietro l’alibi Trump. Ora, con Biden, la cui elezione è stata celebrata come il ritorno alla Casa Bianca del multilateralismo e di un presidente “amico” dell’Ue, sono caduti tutti gli alibi.

Non crediamo che l’amministrazione Biden abbia perso la speranza che l’Ue – ma soprattutto Francia e Germania – si unisca alla strategia comune di contenimento della Cina. Senza l’Europa, qualunque strategia ha scarse chance di successo perché Pechino può facilmente rompere l’accerchiamento diplomatico ed economico. Ma certo, di fronte ai segnali negativi che arrivano dall’Ue, Washington ha deciso di farne per il momento a meno.

Appena eletto Biden, l’Ue su spinta tedesca ha siglato con la Cina il Cai, l’accordo sugli investimenti che Pechino attendeva da anni – ora sospeso dal Parlamento europeo ma non ancora respinto. Quando ai primi vertici internazionali l’amministrazione Biden ha manifestato l’intenzione di coinvolgere tutti gli alleati in una coalizione di democrazie pronte a fare fronte comune contro l’aggressività di Pechino, l’Europa – tramite le sue capitali più importanti, Berlino e Parigi – ha risposto picche, ha rispedito l’invito al mittente. La cancelliera Merkel ha esplicitamente detto che “fare gruppo” contro la Cina è una cattiva idea e Berlino non ci sarebbe stata. Il presidente Macron va ripetendo che la Nato è “in stato di morte cerebrale”, ha aperto alla Russia di Putin senza ricevere da Mosca nemmeno un segnale di attenzione e sogna di ripristinare la grandeur francese guidando il fantomatico esercito Ue.

L’enfasi, anzi la vera e propria ossessione, dei leader europei sul concetto di “autonomia strategica” cos’altro significa in termini pratici se non prendere le distanze dagli Stati Uniti sui rapporti con Cina, Russia e Iran?

Non è che gli Usa facciano “sentire” l’Ue come un alleato di serie B. L’Ue è un alleato di serie B. Ma la colpa è dell’Ue stessa, che non risponde né militarmente – sul fronte della spesa – né politicamente alle richieste di riallineamento degli Usa, anzi manda segnali di insofferenza.

Trump aveva deciso di usare il bastone per riportare gli alleati europei al fianco degli Usa. Biden è tornato alle carote. Ha disinnescato il contenzioso AirbusBoeing sospendendo i dazi trumpiani; ha rinunciato alle sanzioni contro le società europee impegnate nella costruzione del Nord Stream 2, dando di fatto il via libera al completamento al gasdotto. Non si può dire quindi che non abbia mandato segnali concilianti. Eppure ha fallito.

Tutti gli sforzi americani per portare gli alleati europei a bordo nel confronto con la Cina finora non hanno avuto successo, quindi è fisiologico che Washington abbia deciso di andare avanti con gli alleati con i quali è più in sintonia, in questo caso specifico dando seguito all’offerta australiana e britannica di approfondire e ampliare la cooperazione in materia di difesa nell’Indo-Pacifico, ma non solo.

Aukus infatti non è l’unica iniziativa. Sarà il nesso di una rete molto più ampia che attirerà altri raggruppamenti regionali informali con obiettivi diversi, dalla sicurezza al commercio, come il Quad (Stati Uniti, Giappone, India e Australia), o la Trans Pacific Partnership, accordo commerciale che include Stati Uniti, Australia, Giappone, Vietnam, Malesia, Singapore, Nuova Zelanda e che vede il Regno Unito in attesa di adesione.

Il board editoriale del Wall Street Journal l’ha spiegato molto chiaramente:

“Il messaggio di Aukus all’Europa è che gli Stati Uniti fanno sul serio nel resistere all’egemonia cinese nell’Asia-Pacifico. L’Europa non può stare al gioco del divide et impera della Cina su questioni economiche e strategiche senza conseguenze per le sue relazioni con gli Stati Uniti”.

Per Washington, spiega il quotidiano, le tensioni con Parigi sono un prezzo che vale gli sforzi per mantenere un equilibrio militare favorevole nell’Asia-Pacifico.

L’intesa Aukus è una risposta diretta a Pechino, che nel corso dell’ultimo anno ha bullizzato l’Australia, colpevole di aver chiesto una indagine sulle origini del coronavirus, imponendo dazi, imprigionando cittadini australiani e minacciando la classe politica di Canberra.

L’aggressività di Pechino suggerisce agli altri Paesi del Sud-est asiatico quale trattamento li aspetta se l’espansione della potenza economica e militare della Cina non incontrerà ostacoli. E il messaggio a tutti questi Paesi è che gli Stati Uniti premiano la resistenza alle intimidazioni e/o alle sirene cinesi. Aukus è un esempio di solidarietà occidentale di fronte al divide et impera di Pechino, che invece sembra stia funzionando nell’allontanare l’Ue dagli Usa.

Come ha osservato John Keiger sullo Spectator, “ciò che i tre stati dell’Anglosfera hanno messo insieme con Aukus è un accordo flessibile e agile per gestire direttamente la sicurezza dell’Indo-Pacifico. Un club all’interno di un altro club culturalmente definito dell’Anglosfera, molto esclusivo, che esiste dalla Seconda Guerra Mondiale e che non ha mai avuto la Francia come membro, il Five Eyes (con Nuova Zelanda e Canada)”.

“Pur avendo molto da offrire in termini di proiezione navale, sottomarini nucleari e armamenti, intelligence e presenza, grazie ai suoi territori d’oltremare nel Sud Pacifico”, ragiona Keiger, per la sua rigidità, “la sua propensione culturale a definire ogni termine, ruolo ed eventualità”, la Francia (ma il discorso si può estendere all’intera Ue con tutte le sue indecisioni e divisioni interne), non è il miglior partner se la necessità è reagire rapidamente.

Con la campagna presidenziale alle porte, e Parigi che sta per assumere la presidenza di turno dell’Ue, è facile prevedere che Macron reagirà alle difficoltà puntando sull’orgoglio nazionalista ed europeista, insistendo sull’autonomia strategica e l’esercito Ue.

Mentre Macron pare aver deciso di farsi del male sbattendo letteralmente la testa contro il muro Usa, la posizione di Berlino è più sfumata, o meglio più bizantina. La Ostpolitik è più viva che mai, sia nei confronti di Mosca che di Pechino, ma non sentirete mai dai tedeschi attacchi diretti contro la Nato – anche perché consapevoli di non poterne fare a meno. Ma dopo aver deposto l’ascia di guerra contro il completamento del Nord Stream 2, Washington si aspetta da Berlino un nuovo approccio alla sfida cinese. Come il contenimento militare è importante nell’Indo-Pacifico, è importante creare un’area commerciale e tecnologica integrata euro-americana, ma l’approccio mercantilista tedesco, come il gollismo francese, è ancora un grosso ostacolo.

Ci è arrivato persino il “filo-europeo” New York Times, che ha titolato: “La nuova alleanza Usa contro la Cina ha posto l’Europa davanti ad una domanda che ha cercato di evitare: da che parte state?”

Il tempo delle ambiguità è finito. L’Ue non può restare neutrale nella nuova Guerra Fredda, non può continuare a incassare i dividendi economici dell’ascesa della Cina lasciando agli Stati Uniti l’onere di affrontare le conseguenti sfide geopolitiche. L’idea coltivata a Berlino di una Germania “Grande Svizzera”, l’autonomia strategica su cui si insiste a Parigi e Bruxelles, sono incompatibili con il nuovo corso strategico Usa e, quindi, con la sopravvivenza dell’alleanza transatlantica.

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