Un anno fa Massimo Giannini, editorialista di Repubblica, ha creato un gruppo WhatsApp per gli auguri per la festa della Liberazione. Ci ha inserito, a loro insaputa, tutti i numeri della sua rubrica che includeva giornalisti, imprenditori, editori, intellettuali, gente di televisione e spettacolo. Tutto l’establishment progressista italiano.
Per qualche giorno quella chat è diventata un piccolo evento culturale e politico: persone che magari si conoscevano di vista, di reputazione, colleghi e rivali, si scoprivano uniti da un desiderio di partecipazione civile – per quanto digitale – in nome dell’antifascismo.
Il cinismo con cui cronisti e osservatori professionali guardano alla politica ha lasciato il posto, per un attimo, a una spinta ideale: quando, se non con una destra non antifascista al potere, è il momento di riscoprire i valori della Resistenza?
L’impressione, a scorrere i messaggi del gruppo in quei primi giorni di entusiasmo, era che all’improvviso la sinistra italiana avesse riscoperto quello che poteva tenerla unita, un patrimonio che la destra di Giorgia Meloni – per quanto popolare – non poteva condenterle. Cioè il 25 aprile, la Resistenza, la matrice antifascista della Costituzione.
Era un’illusione. Quella chat è diventata invece una specie di esperimento sociale per osservare in diretta quanto il rapporto con l’antifascismo fosse diventato al contempo fragile e problematico proprio per i suoi presunti paladini.
Dopo estenuanti discussioni, la grande risposta della chat alla possibile emergenza di un ritorno del fascismo è stata decidere di spostare l’attività su un gruppo di Facebook, chiuso, peraltro, dove si potevano concordare prese di posizione ufficiali da pubblicare sempre su Facebook.
Non credo esista una migliore declinazione del concetto di “parlarsi addosso” che passare da una chat all’altra, con l’ambizione di pubblicare qualche contenuto su un social network che entusiasma ormai solo gli over 60.
La chat è rimasta attiva, ed è degenerata, al posto dei grandi nomi del progressismo italico sono entrati perfetti sconosciuti, passato il 25 aprile il dibattito si è spostato prima sulla autonomia differenziata, poi – in modo ossessivo – su Gaza e Israele.
Il gruppo nato per parlare della Resistenza, è diventato un processo permanente al governo di Benjamin Netanyahu , con polemiche costanti sui toni, sul riferimento al genocidio, sulle accuse di antisemitismo o sionismo tra i vari partecipanti.
Le divisioni sulla politica internazionale si sono mangiate la discussione sul 25 aprile e la Resistenza. Quel che resta dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani senza più partigiani, si occupa ormai quasi soltanto di Palestina e Gaza.
Niente di male, ma concentrarsi sull’attualità invece che sulla storia genera paradossi: l’impegno contro Israele e per Gaza si accompagna a un distacco critico verso quello che succede in Ucraina.
Il paradosso dell’Anpi
Il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, non parla di resistenza ucraina, è contrario al riarmo dell’Unione europea che vuole aumentare le spese militari per consentire a Kiev di resistere. Anzi, Pagliarulo – un po’ come Donald Trump – attribuisce all’Europa le responsabilità per la durata della guerra.
Già dopo l’annessione illegale della Crimea nel 2014, Pagliarulo riprendeva su Facebook tutte le analisi della propaganda russa, sulle vere colpe che erano della Nato e dell’Occidente.
Il risultato di queste evoluzioni un po’ paradossali è che l’Anpi celebra il 25 aprile del 2025, l’ottantesimo anniversario, con un appello alla “resistenza consapevole, pacifica, collettiva”. Che è un po’ singolare se si pensa che la Resistenza – e il mito che ne è derivato – è stata un fenomeno militare, di una minoranza coraggiosa, che era consapevole di quello che faceva ma anche del fatto che le cose potevano finire molto male.
Dopo ottant’anni, insomma, è la sinistra a fare quello che non è riuscito alla destra postfascista e ai tanti revisionisti che hanno provato a snaturare, annacquare, neutralizzare la memoria della Resistenza.
E’ la sinistra, nello specifico l’Anpi, a celebrare un 25 aprile senza partigiani, a venerare il manifesto di Ventotene ma a considerare una minaccia alla pace l’Europa che su di esso – con tutti gli inevitabili compromessi – è stata costruita.
Questa distorsione, questo uso politico della storia che manipola la memoria fino a ribaltarla, sarebbe soltanto un interessante caso di dibattito culturale se non fosse che avviene mentre il mondo inizia ad assomigliare sempre di più a quello degli anni Trenta.
Con una guerra mondiale a pezzi, come la chiamava papa Francesco, e con molte destre al potere che hanno progetti e pratiche autoritarie, che ignorano tribunali e stato di diritto, e che rendono le elezioni plebisciti.
E’ in un mondo così che servirebbe una memoria attiva della Resistenza, intesa sia come fenomeno storico, con una sua specificità temporale e geografica, sia come la capacità di accorgersi che a volte il solo modo per seguire la giustizia è violare la legge, praticare una disobbedienza civile che può essere disarmata o armata a seconda del contesto e della minaccia.
La destra ci ha provato per tanti anni, ma alla fine è la sinistra – e nello specifico l’Anpi – che sta trasformando la festa della Liberazione in una generica occasione di affermazione dei propri – confusi – valori, con i partigiani e le partigiane che sbiadiscono sullo sfondo.
(Estratto da Appunti di Stefano Feltri)