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2 giugno 1946: quando l’Italia si scoprì repubblicana

Il Bloc Notes di Michele Magno

Il 2 giugno 1946 gli italiani si mettono disciplinatamente in coda davanti ai seggi. La scheda elettorale che si trovano tra le mani è semplice, con un titolo sintetico (“Referendum sulla forma istituzionale dello Stato”) e due simboli chiari. Sulla sinistra, il profilo della penisola e al centro una testa di donna con una corona turrita ornata di foglie di lauro e di quercia: sopra, la parola “Repubblica”. Sulla destra, un profilo della penisola pressoché identico all’altro e nel centro lo stemma sabaudo (lo scudo con la croce bianca): sopra, la parola “Monarchia”.

La scelta della donna turrita del contrassegno repubblicano era stata respinta da Falcone Lucifero, perché rea di sviare l’elettore. In effetti, per l’iconografia popolare quell’immagine femminile era il simbolo stesso del Risorgimento. La sua origine risaliva all’età liberale, in cui l’dea di nazione era associata a un’idea di giovinezza e di grazia: da allora essa compariva con questa effigie nei sussidiari delle scuole, nei manifesti patriottici, nei francobolli. Ma, nonostante le reiterate contestazioni, alla fine il ministro della Real Casa aveva dovuto piegarsi alla volontà del ministro dell’Interno, un irremovibile Giuseppe Romita.

Il 3 giugno le urne si chiudono. Al neonato suffagio universale avevano partecipato quasi venticinque milioni di votanti (di cui tredici milioni donne), il 90 per cento degli aventi diritto. Ma il conteggio è lento e fornisce risultati sensibilmente diversi da quelli attesi: anziché una travolgente vittoria repubblicana, una vittoria controversa e un paese geograficamente spaccato in due, il Sud monarchico e il  Centro-Nord repubblicano. Per di più, i risultati arrivano al Viminale in ritardo. I più tempestivi sono quelli delle regioni meridionali, dove la guerra era finita da tempo ed era stato possibile ripristinare telegrafi e linee telefoniche. I dati sono frammentari e ufficiosi, ma alcuni quotidiani si sbilanciano annunciando il probabile successo della monarchia.

Come sottolinea Gianni Oliva in un libro scritto “sine ira et studio” (“Gli ultimi giorni della monarchia”, Mondadori, 2016), lo stesso presidente del Consiglio Alcide De Gasperi pensa che il re ce l’abbia fatta. Le percentuali cambiano nel corso della notte tra il 4 e il 5 giugno, quando affluiscono tutti i dati del Nord: 54 per cento alla repubblica e 46 per cento alla monarchia, uno scarto di circa un milione e settecentomila voti. La proclamazione del risultato spetta alla Cassazione, ma il “ribaltone” è un calice amaro per i perdenti: serpeggiano le prime voci di brogli, si accusa l’esecutivo di aver manipolato i dati, si fa strada la leggenda metropolitana di Romita che avrebbe nascosto nei cassetti del Viminale un milione di schede prevotate per la repubblica.

L’esito del referendum spiazza comunque i partiti del Comitato di liberazione nazionale (tutti filorepubblicani, escluso quello liberale). Erano infatti convinti che gli elettori avrebbero duramente punito la “fellonia” di Vittorio Emanuele III (copyright Palmiro Togliatti): il fascismo, le leggi razziali, l’alleanza con Hitler, un conflitto bellico rovinoso, l’8 settembre 1943, la fuga a Pescara. La regina Maria José temeva addirittura che la monarchia non avrebbe varcato la soglia del 15 per cento.

Curiosamente, proprio la consorte di Umberto II sottostimava quanto la figura del sovrano fosse profondamente radicata nell’immaginario collettivo degli italiani, molti dei quali consideravano storia dei Savoia e storia patria come due facce della stessa medaglia. Inoltre, la stagione della fame e delle distruzioni, della lotta partigiana e delle rappresaglie tedesche, era stata vissuta soprattutto al di là del Po. Da ultimo, il luogotenente del Regno Umberto II, divenuto re dopo la tardiva abdicazione del padre, era un personaggio accattivante per lo stile misurato e l’eleganza dei modi: ogni sua apparizione in pubblico spostava consensi a favore della monarchia. Quel 46 per cento non poteva insomma lenire l’amarezza degli sconfitti, per giunta beffati sul filo di lana.

Montagne di ricorsi vengono perciò inoltrate alla Suprema Corte. Un gruppo di autorevoli professori dell’università di Padova, sotto l’egida del deputato Enzo Selvaggi, chiede perfino di sospendere qualunque decisione, in quanto il decreto istitutivo del referendum parlava di vittoria dello schieramento che ottiene la “maggioranza degli elettori votanti”, e non la “maggioranza dei voti validi”. Tra bizantinismi giuridici e schermaglie politiche, la confusione sale alle stelle. Come annota Vittorio Gorresio, allora capocronista del “Risorgimento Liberale” di Mario Pannunzio, a Roma “la folla a piazza Montecitorio chiedeva la bandiera, ma non ne fu esposta nessuna perché non si sapeva quale”. E, insieme ai ricorsi, scattano le manifestazioni di protesta. Qui entrano in scena le masse napoletane.

Il 6 giugno il loro risveglio è brusco: mentre otto su dieci abitanti avevano scelto la monarchia (superati soltanto dai messinesi, catanesi e palermitani), la maggioranza degli italiani aveva optato per la repubblica. La prefettura partenopea è preoccupata dall’eventualità di disordini, anche perché Maria José e i quattro figli il giorno precedente si erano trasferiti a Villa Rosebery, in attesa di imbarcarsi per il Portogallo sull’incrociatore “Duca degli Abruzzi”. La famiglia reale viene pertanto invitata a lasciare Napoli alle prime luci dell’alba.

Il clima si surriscalda a metà pomeriggio, quando in piazza del Carmine una ressa di donne comincia a lanciare insulti contro i repubblicani “affamatori del popolo”. Sul calare della sera almeno cinquecento giovani si dirigono verso la stazione dei carabinieri di via Sant’Antonio per impadronirsi dell’armeria, contando sulla tradizionale fedeltà del Corpo alla dinastia sabauda. Per tutta risposta, il maresciallo che comandava la stazione, Filippo Cucuzza, fa sparare in aria alcuni colpi di fucile a scopo intimidatorio.

I manifestanti all’inizio si disperdono, ma presto tornano alla carica e scagliano un ordigno contro la chiesa vicina, ferendo una decina di persone estranee ai tafferugli. Nonostante l’intervento dell’esercito, non cessano di ammucchiare pietre divelte dal selciato, erigono barricate con i carretti parcheggiati nei cortili, si schierano a testuggine. Quella che si scatena è una vera guerriglia urbana, un’esperienza inusuale in un paese abituato da un ventennio ad assistere solamente a disciplinate marce di regime.

Sedati a fatica i tumulti, si contano numerosi contusi e sei feriti gravi. Uno di questi, l’imbianchino Ciro Martino, spira prima di essere soccorso dai medici. Napoli sprofonda nell’emergenza: i mezzi cingolati perlustrano la città, i fanti setacciano ogni angolo a caccia dei malintenzionati, i carabinieri interrogano e fermano decine di persone. In un incontro con Guglielmo Giannini e con altri esponenti politici napoletani, Romita minimizza l’accaduto: non c’è nessun piano per sovvertire il risultato referendario, ma solo l’incrocio occasionale tra il malessere sociale dei ceti più umili, inquieti anzitutto per la scarsità e i prezzi crescenti dei generi alimentari, e la reazione rabbiosa di etremisti monarchici.

Nella mattina del giorno successivo sui muri del capoluogo campano vengono affissi manifesti firmati da un fantomatico “schieramento monarchico”, in cui si invoca la separazione di Napoli dall’Italia e la creazione di uno Stato indipendente guidato da Umberto II. Verso mezzogiorno un migliaio di persone inneggianti alla monarchia si raduna in piazza Carlo III. In un battibaleno si forma un corteo enorme, che muove verso la ferrovia e prosegue verso il Rettifilo scandendo “Vi-va-il-re” e slogan contro la “truffa del referendum”.

Ci sono studenti universitari, bottegai, artigiani, manovali edili, braccianti, sfaccendati senza mestiere e perfino qualche intellettuale. L’iniziativa, in cui si distinguono i militanti dei “Gruppi Savoia”, la più combattiva tra le associazioni monarchiche partenopee, da testimonianza di fede si trasforma rapidamente in un’esibizione muscolare. Giunto nei pressi dell’Università, il corteo viene fronteggiato da uno sbarramento di polizia e carabinieri. Prima fischi e urla, poi l’esplosione di una bomba a mano sulla facciata dell’Albergo Nazionale. La folla ondeggia paurosamente. Un soldato, in preda al panico, lascia partire un proiettile dal suo moschetto che gli squarcia il petto.

L’incidente esaspera gli animi. Si odono ripetute scariche di fucileria in aria. I dimostranti, ormai molte migliaia, formano allora due nuovi cortei: il più grande si dirige verso via Roma, il secondo raggiunge piazza del Plebiscito. Tutto il centro di Napoli è bloccato. Il commissariato di sezione Mercato viene attaccato da un manipolo di violenti. Gli scontri sono assai aspri. I feriti riempiono le corsie degli ospedali. Un diciassettenne, facchino al porto, giace a terra con l’addome perforato da un proiettile. Intanto giungono notizie di altri tafferugli scoppiati a Palermo, Bari e Taranto. “Alla fine di quella lunga giornata napoletana -osserva Romita- nessuno poteva giurare su che cosa sarebbe accaduto l’indomani”.

Nel frattempo, Umberto II -pressato dai suoi più stretti consiglieri- cerca di resistere e attende il pronunciamento della Cassazione. Il governo, invece, ha fretta e vuole mettere i giudici di fronte al fatto compiuto. La temperatura politica del paese sale vertiginosamente. E le conseguenze non si fanno aspettare. Sempre a Napoli, l’11 giugno gli attivisti monarchici scendono nuovamente in campo. Il teatro principale degli scontri è adesso via Medina, dove è ubicata la sede della federazione comunista. Per impedirne la devastazione, alcuni agenti sparano sui manifestanti più risoluti. Uno di loro, Mario Fioretti, viene colpito a morte. Il movimento di protesta si trasforma in un esplicito movimento di tipo insurrezionale. Segue una guerriglia selvaggia e furibonda, durata più di tre ore: auto incendiate, vagoni tranviari rovesciati, trincee di fortuna nei viottoli circostanti.

La situazione si fa particolarmente critica per i militanti comunisti asserragliati nei locali della federazione, tra i quali c’è un giovanissimo Giorgio Napolitano. Giorgio Amendola, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio, preme sulle autorità cittadine per un intervento ancora più energico. La notte trascorre tra le sirene delle ambulanze e il rumore sordo delle autoblinde. Il bilancio viene stilato dalla questura il mattino seguente: sette ragazzi morti, tutti sotto i venticinque anni; settantuno i feriti ricoverati in ospedale, ventidue dei quali poliziotti, carabinieri e militari. Nei giorni successivi ci saranno altri decessi, per un totale di undici morti, nove civili e due agenti.

Il 13 giugno Umberto II rientra al Quirinale dall’alloggio di via Verona. De Gasperi è stato appena avvertito della sua decisione di lasciare l’Italia. La partenza per l’esilio portoghese è però accompagnata da un proclama, che l’Ansa trasmette in serata. In esso il “re di maggio” accusa il governo da avere assunto “con atto unilaterale e arbitrario poteri che non gli spettano”, e di averlo “posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire violenza”. Il 16 giugno i giornali non parlano più di Umberto II, del referendum e dei morti di Napoli. I titoli sono tutti per lo sconosciuto ciclista triestino Giordano Cottur: ha staccato gli avversari sulla salita di Superga,  indossando la prima maglia rosa del “Giro della rinascita”.

 

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