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16 ottobre

Ricordare il 16 ottobre per non banalizzare Hamas

Se il ricordo del 16 ottobre 1943 non si lega alla condanna del 7 ottobre 2023, il significato dell’anniversario sbiadisce sino a diventare l’ennesima auto-assoluzione di chi non vuole fare i conti con il passato. L'intervento di Gregory Alegi, docente Luiss Guido Carli

«Il mio primo impatto con l’ebraismo risale al 16 ottobre 1943, quando furono deportati gli ebrei romani. Io andavo a scuola da solo. Ero abbastanza grande, avevo 11 anni. Ma quel giorno mia madre venne a prendermi. Mi disse che erano venuti a cercare mio padre e che quindi non potevamo tornare a casa.» Così Gianni Jona Lasinio, classe 1932, uno dei più grandi fisici della sua generazione, dice al figlio nel documentario biografico A Theoretical Life.

Quel che la madre non disse a Gianni, e che il film omette, è che il padre si era salvato per un pelo, uscendo dalla scala di servizio mentre i nazisti salivano da quella principale. Lo so perché Pietro Davide, il figlio di Gianni, è stato il mio compagno di banco delle elementari, un amico tanto stretto che ci siamo scambiati le storie più intime di famiglia. Ma, a ben guardare, lo so solo perché Gianni si è salvato, al contrario dei 1.023 ebrei rastrellati e deportati quel giorno, e degli infiniti altri sterminati durante la follia hitleriana, anche con l’aiuto italiano.

L’ANTISEMITISMO, IERI E OGGI

Sono convinto che la storia non si faccia con gli anniversari, perché le cose che contano davvero si ricordano ogni giorno e perché gli eventi non sono puntiformi ma hanno radici remote e proiettano le loro conseguenze in avanti. Per esempio, il 16 ottobre del quale oggi ricorrono 80 anni, discende direttamente dalle leggi varate nel 1938, che escludevano gli ebrei dalla società italiana, a partire dalle scuole di ogni ordine e grado, come docenti o discenti. E tutte si collegano al pregiudizio antisemita che affonda le sue origini nel passato più remoto e riaffiora ogni qualvolta ve ne sia il pretesto, che si tratti di minimizzare l’attacco a un ragazzo che porta la kippah, di irridere il presidente dell’Ucraina aggredita dalla Russia, di girare lo sguardo dall’altra parte quando arrivano le notizie di un possibile attentato contro la Sinagoga di Roma, di giustificare la strage da parte di Hamas di oltre 1.300 israeliani, il rapimento di altri 200 e il ferimento di 3.277 ancora.

È per questo che è ipocrita chi distingue tra un Israele da condannare per questo o quel motivo (solo poche volte reale) e gli ebrei come individui, negando che vi sia continuità tra quello Stato ebraico e l’identità culturale e religiosa dei singoli. È per questo che la frattura creatasi nel 1938 tra la società italiana e gli ebrei, respinti in un ghetto virtuale meno di un secolo dopo la loro emancipazione da parte del Regno di Sardegna (ed estesa nel 1861 al Regno d’Italia), non si è mai davvero sanata, come indica la loro sostanziale assenza nelle forze armate, nell’università e nelle istituzioni che dopo averli espulsi nel 1938 non ebbero il coraggio di espellere chi ne aveva occupato il posto.

Di fronte ai rigurgiti di antisemitismo in Occidente, dalle profanazioni di cimiteri alle stelle di Davide tracciate su case e negozi in questi giorni a Berlino, dalla solidarietà con i terroristi di Hamas alla presenza di ex terroristi italiani (gli stessi ai quali erano destinati i missili di Ortona? Chissà …), bisogna chiedersi perché Israele non dovrebbe difendersi da chi lavora alacremente per attuarne la distruzione prevista dal proprio statuto. Bisogna chiedersi perché i nemici di Israele trovino sempre chi ne giustifica “senza se e senza ma” le azioni più orrende, compresi stupri e sgozzamenti, mentre Israele debba spiegare le ragioni della sua stessa esistenza. Bisogna chiedersi se abbandonare al suo destino Israele, disconoscendogli quel diritto alla difesa di fronte agli attacchi che è sancito persino dalla carta dell’ONU, non sarebbe la certificazione del disinteresse per le nostre radici e la democrazia.

Le risposte a queste domande non mancano. Esse si snodano anzi per oltre venti secoli, lungo una linea ideale che collega il «Se non ora, quando?» di Rav Hillel (non a caso scelto da Primo Levi come titolo del suo romanzo sui partigiani ebrei in territorio russo nel 1943-45) al sorvolo di Auschwitz da parte degli F-15 dell’aviazione israeliana il 4 settembre 2003 (per dare sostanza alla promessa di «Mai più»).

Se il ricordo del 16 ottobre 1943 non si lega alla condanna del 7 ottobre 2023, il significato dell’anniversario sbiadisce sino a diventare l’ennesima auto-assoluzione di chi non vuole davvero fare i conti con il passato. Di chi frammenta il fenomeno per tentare di renderlo invisibile. Di chi, in ultima analisi, preferisce piangere gli ebrei morti anziché riconoscere a quelli vivi il diritto di difendersi.

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