Al discorso intriso di patriottismo del presidente cinese Xi Jinping hanno fatto seguito le rassicurazioni e le aperture sull’economia del premier Li Keqiang. Davanti ai delegati riuniti per l’ultima giornata dell’annuale plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo, il capo di Stato, dopo aver incassato la modifica costituzionale che ha abrogato il limite dei due mandati, dandogli l’opportunità di restare al potere anche oltre il 2023, si è impegnato a portare a termine il risorgimento del Paese, costruendo una nazione «prospera, forte, armoniosa, democratica» secondo i dettami del «socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era».
Linea che sintetizza il contributo teorico che lui stesso ha dato alle basi ideologiche del Partito comunista e significa che Pechino non cederà di un millimetro ai tentativi di dividere la Repubblica popolare. Un messaggio rivolto soprattutto a Hong Kong e Taiwan e a quanti, nell’ex colonia britannica e nell’isola di fatto indipendente dalla Cina comunista dal 1949, accarezzano idee separatiste. Lo sviluppo cinese non comporterà comunque minacce ad altri Paesi, ha garantito Xi nel ripetere inoltre che il controllo della nazione ricade sul Pcc. Partito del quale già nei mesi scorsi lo stesso Xi Jinping è stato indicato come il «nucleo centrale». Un ruolo predominante, in antitesi con la gestione collegiale dei suoi predecessori alla presidenza, enfatizzato dal tributo che gli ha concesso il presidente dell’Assemblea nazionale, Li Zhanshu, chiamandolo «timoniere» e andando a alimentare quel filone di analisi che lo dipinge come un nuovo Mao, sebbene sia diverso dal leader rivoluzionario e diversa è la Cina della quale si ritrova al comando.
A fare da contrappeso ai richiami nazionalisti di Xi ci ha pensato la conferenza stampa finale del premier Li Keqiang, cui il presidente ha in parte rubato la scena. Il primo ministro ha parlato rivolgendosi agli investitori e ai partner commerciali. «La nostra economia è così integrata con il resto del mondo, che chiudere le porte della Cina vorrebbe dire ostacolare il nostro sviluppo». Proprio per questo Pechino vorrebbe scongiurare una guerra commerciale con gli Stati Uniti dalla quale, a detta di Li, nessuno uscirebbe vincitore.
La situazione al momento sembra andare nella direzione opposta. Liu He, appena nominato vice premier, è tornato da Washington con la richiesta di ridurre di 100 miliardi di dollari il surplus commerciale cinese nei confronti degli Usa, mentre il presidente Donald Trump si appresta a varare un pacchetto di dazi da 60 miliardi sul cento prodotti.
L’arma in mano ai cinesi per ribattere alle politiche protezionistiche dell’amministrazione Usa sono tariffe sui fagioli di soia. Lo scorso novembre l’apertura a maggiore importazioni cinesi di questo prodotto era stato salutato come uno dei risultati del viaggio a Pechino di Trump. Ieri a sventolare la minaccia della soia come strumento di ritorsione contro il protezionismo è stato invece Hu Xijin, direttore del Global Times, giornale della galassia del Quotidiano del Popolo, spesso portavoce delle posizioni più nazionalistiche all’interno della dirigenza comunista.
Il premier Li ha quindi assicurato l’intenzione di tutelare maggiormente i diritti di proprietà intellettuale, esortando però gli Usa a tenere fede all’impegno di allentare i controlli sulle tecnologie avanzate e a sua volta aprendo alla possibilità di non dover procedere al trasferimento di tecnologia per le imprese estere che intendono accedere al mercato cinese. Le aperture riguardano anche la revisione dei vincoli alla proprietà straniera delle aziende in settori come l’istruzione, la cura degli anziani e i servizi finanziari. Li ha quindi espresso fiducia nella capacità del governo di gestire e ridurre rischi finanziari sistemici, tema centrale per la nuova squadra economica designata da Xi che ha in Liu He e nel governatore della People’s Bank of China, Yi Gang, le due figure chiave. In questa direzione va pertanto la scelta annunciata in apertura della Assemblea nazionale di ridurre il rapporto deficit pil dal 3% al 2,6%.
«I mercati finanziari attendono con impazienza una risposta alle seguenti domande», ha commentato Nadège Dufossé, capo dell’Asset Allocation di Candriam, «per quanto tempo la Cina tollererà una divisa più forte? Nel contesto di una crescita leggermente meno ciclica, l’apprezzamento dello yuan negli ultimi dodici mesi rappresenta un ostacolo per le esportazioni cinesi. In secondo luogo, che tipo di misure di ritorsione adotterà Pechino in risposta ai dazi imposti dagli Stati Uniti su acciaio e alluminio? Vi è solo una certezza: sarà Xi Jinping a decidere in merito».