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Web Tax: le baruffe tra Stati, la retromarcia di Macron, le mosse dell’Italia. Ecco novità e polemiche

Fatti, numeri, polemiche e approfondimenti sulla Web Tax nel Punto di Michele Arnese

“Le grandi società che producono profitti [in Francia] devono pagare le tasse in Francia. Semplicemente è giusto così”. Questa frase di Emmanuel Macron, nel suo discorso di lunedì sera, è stato l’unico riferimento a una possibile tassa sulle multinazionali del web da parte del presidente del Paese che più di tutti in Europa in questi mesi si è speso per arrivare all’approvazione della cosiddetta “Digital Services Tax”.
Tassare i GAFA (Google, Amazon, Facebook e Apple) presenta molti vantaggi, sulla carta. Innanzitutto, è un “problema di giustizia fiscale“, come ripetuto di nuovo il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire la settimana scorsa. Infatti, le grandi aziende digitali “pagano in media il 9% di tasse in Europa, mentre le società tradizionali pagano il 23%”, denuncia regolarmente Pierre Moscovici, il commissario europeo che sta gestendo la questione a Bruxelles.

In secondo luogo, i giganti del web offrono un obiettivo politicamente ideale: sono per lo più americani, incarnano la ormai ovunque vituperata (dai sovranisti) idea “globalista”, e le loro pratiche fiscali sono state già condannate dalla Commissione Ue e da vari Paesi (a cominciare dall’Italia, si veda l’ultimo recente accordo tra Facebook e l’Agenzia delle Entrate). Su queste basi, la tassazione dei giganti digitali appare quindi una partita semplice.

O forse no. La prima domanda da porsi infatti è relativa a quale attività digitale dovrebbe essere tassata. Come si possono evitare distorsioni della concorrenza fiscale tra Paesi europei che potrebbero dissuadere un’Amazon o una Apple dall’investire e creare posti di lavoro in Europa? E la risposta non può certo essere l’approccio semplicistico, emerso negli ultimi mesi, di una tassazione sul fatturato e non sui profitti. Approccio che vede tra i più recenti supporter persino l’ex ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, di cui però non si ricordano certi afflati nel suo periodo al governo.
Nel 2018 la Francia è stata il primo sponsor del progetto di direttiva europea mirata a tassare il 3% del fatturato, non il profitto, delle società con almeno 50 milioni di euro di entrate digitali in Europa. Un’imposta che avrebbe toccato circa 180 aziende presenti in Europa. A bloccare il progetto è stata però l’ostilità di Irlanda, Danimarca, Svezia e Finlandia, Paesi in prima linea sull’innovazione, cui si è aggiunta la cautela della Germania. conscia – notano gli analisti – del rischio di uno scontro commerciale con gli Stati Uniti, che peraltro non farebbe troppo bene all’Italia.
È proprio per evitare quest’ultimo rischio che Parigi ha fatto concessioni la settimana scorsa per ottenere un accordo con Berlino, cambiando approccio rispetto alla tassazione dei giganti del web.La base imponibile è stata ridotta: i marketplace digitali e la rivendita di dati personali non sarebbero più interessati. Solo la pubblicità online verrebbe tassata. Si stima che la nuova DAT (Digital Advertising Tax) genererà entrate per circa 2 miliardi di euro a livello europeo, colpendo principalmente i tre campioni dell’advertising online: Google, Facebook e Amazon.

Il prossimo vertice europeo è previsto per marzo 2019, sotto la guida della presidenza romena. In caso di un accordo definitivo, l’imposta entrerebbe in vigore nel 2021. Se Parigi e Berlino non dovessero riuscire a convincere i Paesi recalcitranti, il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire li ha già avvertiti: “Procederemo a livello nazionale”, come già stanno facendo Italia, Spagna e Regno Unito.

Proprio in Italia, intanto, procedono i lavori sulla Legge di Bilancio 2019. Il ministero dell’Economia – nello specifico il viceministro Massimo Garavaglia, plenipotenziario della Lega sui temi fiscali – sta ora lavorando su una nuova ipotesi di testo a presentare al Senato che andrebbe a sostituire la “web tax” approvata lo scorso anno e mai implementata (anche perché avrebbe impattato più le PMI che le multinazionali del web). L’orientamento, che appare capace di soddisfare un po’ tutti, a cominciare dai tecnici del Ministero, potrebbe essere quello di anticipare la nuova Digital Advertising Tax europea, limitando lo scopo all’advertising online e trovando il modo di rendere l’imposta applicabile al più tardi dall’1 gennaio 2020, facendo così vedere l’Ue che il governo italiano è capace di fare ciò che l’Europa non è stata in grado. Moscovici sarebbe contento, stavolta.
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