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Videogiochi

Come gode il settore dei videogiochi. Numeri e curiosità

L'approfondimento di Carlo Terzano

C’era una volta Hollywood, punta di diamante di un settore all’avanguardia che fruttava miliardi come se piovessero. Erano altri tempi, quelli malinconicamente sopravvissuti solo nei film in costume di Woody Allen. Oggi, la vera gallina dalle uova d’oro nel campo dell’intrattenimento sono i videogiochi. Il sorpasso, in realtà, era avvenuto da tempo, ma mai come negli ultimi 24 mesi si è fatto evidente.

QUANDO I VIDEOGIOCHI VALGONO PIU’ DEI COLOSSAL

L’industria videoludica ha ormai raggiunto e superato quota 120 miliardi di dollari e ha chiuso il 2019 con una crescita pari al 3% sui 12 mesi precedenti. A metterlo nero su bianco l’istituto SuperData Research. Continuando il raffronto col mercato cinematografico, nel 2017 (ultimi dati disponibili) il mondo di celluloide secondo i dati di Mpaa (Motion Picture Association of America) si era fermato a 88,4 miliardi di dollari, di cui 40,6 miliardi provenienti dai box office cinematografici e 47,8 miliardi dall’home entertainment (+11%).

videogiochi
Fonte SuperData Research

COSI’ GLI SMARTPHONE TRAINANO UN INTERO MERCATO

A far ripartire un settore che, solo una decina d’anni fa, sembrava aver raggiunto la saturazione, da un lato i videogiochi distribuiti su cellulari e tablet, dall’altro gli e-sports (che fatturano ormai così tanto da essere considerati un mercato a sé). Oltre 64 miliardi del fatturato globale provengono dalle produzioni mobile, 29,6 miliardi dal mercato PC e 15,4 dalle console. Le quote rimanenti sono legate ai video e alle produzioni dei content creator a tema gaming (6,5 miliardi) e al mercato XR, basato sui giochi e i dispositivi di realtà virtuale e aumentata (6,3 miliardi). Volendo ulteriormente indagare su ciò che ha permesso ai titoli per tablet e smartphone di imporsi in pochi anni, ecco che si scopre (ma, in realtà, non è certo una sorpresa) che dietro tutto questo successo c’è la diffusione dei videogiochi free-to-play con acquisti in-game. Il gioco, in sé, è gratis, ma durante le partite il giocatore viene invogliato a effettuare micro-transazioni che spesso aiutano a progredire più rapidamente nell’avventura.

IL SUCCESSO DI POKÉMON GO

Un successo, quello dei videogiochi per smartphone, così grande da avere spinto persino la nipponica Nintendo, conosciuta per essere particolarmente tradizionalista, a imprestare le sue IP al settore mobile. Dopo alcuni timidi tentativi, infatti, la software house fondata a Kyoto nel 1889 qualche anno fa (2016) ha fatto debuttare su cellulare la sua mascotte: Super Mario in Super Mario Run. Si è trattato di un vero e proprio evento perché prima di allora, se si escludono alcuni titoli affidati a terze parti sul finire degli anni ’80, Nintendo si era sempre rifiutata di distribuire i propri videogame su piattaforme che non distribuisse. Ma il vero successo è stato raggiunto da Pokémon Go, capace di superare il miliardo di download e i 2,56 miliardi di dollari di ricavi in soli tre anni. Per fare un paragone, Candy Crush Saga nello stesso periodo si era fermato a 1,68 miliardi di dollari, mentre rimane imbattuto Clash of Clans (3,15 miliardi nel primo triennio). E in Italia? Gli italiani amano i videogame: ne consumano un sacco, per circa 2 miliardi all’anno.

E L’ITALIA? RISCHIA DI PERDERE ANCHE QUESTO TRENO

Eppure, il nostro mercato continua a restare nella sua bolla. Questo nonostante i coraggiosi tentativi di ribaltare la situazione. Non poteva del resto essere altrimenti, considerate le esternazioni dell’ex ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda (su Twitter scrisse: “In casa mia i videogiochi non entrano. Sono una delle cause dell’incapacità di leggere, giocare e ragionare”) che lasciano ben intendere lo scetticismo imprenditoriale attorno agli sviluppatori di videogame.  Secondo i dati di Aesvi, l’Associazione che rappresenta gli editori e gli sviluppatori italiani (una sorta di Confindustria del videoludo), su 127 software house e case di produzione (spesso coincidenti, considerato il nostro nanismo), solo cinque studi hanno raggiunto un fatturato di almeno 2 milioni di euro.

I TALENTI ITALIANI FUGGONO ALL’ESTERO

Mancanza di capacità? Di fantasia? Di talento? Tutt’altro. A scarseggiare sono i fondi. Il problema, che impedisce all’imprenditoria in senso lato di crescere come dovrebbe, si acuisce sul fronte videoludico. L’88% degli addetti dichiara, infatti, di ricorrere a risorse proprie per finanziare lo sviluppo dei videogame. Chi ha i soldi investe con fatica sulle software house, probabilmente perché condivide lo scetticismo di Calenda. E dire che, proprio a Milano, è stato recentemente sviluppato uno dei titoli tripla A più apprezzati da critica e pubblico: Mario + Rabbids Kingdom Battle. Un gioco la cui caratura è riuscita a convincere la diffidentissima Nintendo a concedere l’uso della licenza di Super Mario a uno studio di sviluppo italiano. Non esistono dati ufficiali, ma il titolo milanese dovrebbe avere superato da almeno un anno le 2 milioni di copie vendute in tutto il mondo.

IL GOVERNO ITALIANO IGNORA LE SOFTWARE HOUSE

E chi c’è dietro alla software house che lavora all’ombra del Duomo? Ubisoft, studio di sviluppo francese. Il governo francese, diversi anni fa, conferì al creativo di spicco di quella realtà, Michel Ancel, il titolo di cavaliere della Repubblica. Questo per sottolineare la diversità di trattamento dei propri talenti da Parigi e a Roma. Proprio a Roma le software house nostrane chiedono ormai da anni che diventi finalmente legge il pacchetto di sgravi fiscali della legge cinema con estensioni al settore dei videogiochi, datata 2016. Fu voluta dall’allora ministro ai Beni Culturali Dario Franceschini, che dichiarò: “Grazie a questa legge saranno disponibili risorse certe per 400 milioni di euro all’anno, oltre il 60% in più rispetto ai fondi attuali, e verranno introdotti strumenti automatici di finanziamento con forti incentivi per i giovani autori e per chi investe”. Sono passati ormai tre anni, nel frattempo Franceschini è tornato a occupare quella poltrona, ma si attendono ancora i decreti attuativi.

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