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Huawei Regno Unito

Vi svelo genesi e mire di Huawei (e l’egemonia della Cina sulle terre rare)

Come e perché gli Stati Uniti di Donald Trump temono Huawei e la Cina. L'approfondimento di Tino Oldani, firma di Italia Oggi

 

Come mai la cinese Huawei, produttrice di cellulari, preoccupa tanto Donald Trump? Perché gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra a questa impresa, consigliando agli alleati, Italia inclusa, di non coinvolgerla assolutamente nei piani di sviluppo delle reti 5G di telecomunicazioni, quelle di ultima generazione? La risposta sta in due parole: terre rare. Ovvero in 15 materie prime (note come lantanoidi) fondamentali per produrre non solo cellulari touch-screen, ma tutti i prodotti del futuro connessi all’intelligenza artificiale, come i robot domestici, gli apparecchi per il riconoscimento facciale, i motori elettrici, le auto a guida autonoma. In pratica, il futuro dell’economia mondiale. Di queste 15 materie prime, rare quanto preziose (senza l’indio non esisterebbe il touch-screen), la Cina controlla l’80% della produzione su scala mondiale, con miniere sul proprio territorio nazionale. Una vantaggio che, a Pechino, hanno saputo sfruttare con lungimiranza.

Il primo leader cinese a capirne l’importanza per i futuri sviluppi tecnologici è stato Deng Xiaoping, che nel 1992, in un discorso al Politburo del Partito comunista cinese, disse: «Il Medio Oriente ha il petrolio, ma in Cina ci sono le terre rare». Una profezia che ha richiesto circa 20 anni per avverarsi. Infatti è nel 2010 che la Cina decide di ridurre del 72%, anno su anno, le esportazioni di lantanoidi, asserendo problemi di carattere ambientale. Ma la realtà è ben diversa: appena due anni prima, nel 2008, grazie alle terre rare cinesi, era stato fabbricato il primo iPhone, l’inizio di una rivoluzione tecnologica in cui la Cina decide di giocare un ruolo da protagonista. Da qui un cambiamento storico nella politica cinese: offrire le terre rare a basso costo alle imprese produttrici di smartphone e di elettrodomestici che siano disposte a insediare le loro fabbriche in Cina, in joint venture con un socio cinese.

Il passo successivo è stata la rapida acquisizione da parte cinese del know-how tecnologico necessario per produrre in proprio gli smartphone e gli altri prodotti che, anno dopo anno, hanno arricchito l’offerta di device per le telecomunicazioni e il web, ovviamente a prezzi inferiori a quelli dei maggiori produttori mondiali. Una scelta politica e commerciale di cui ha beneficiato moltissimo la Huawei, che in pochi anni ha scalato la classifica mondiale dei produttori, piazzandosi (agosto 2018) seconda dopo Samsung, ma davanti all’americana Apple, scesa al terzo posto.

Su ItaliaOggi dell’8 gennaio scorso, un articolo di Andrea Brenta riassumeva le cifre di questo successo: Huawei ha superato i 200 milioni di smartphone venduti nel 2018, impiega 180 mila dipendenti nel mondo, e prevede di fatturare 100 miliardi di dollari nell’esercizio 2018, contro il 92,5 milioni del 2017. La sua quota del mercato mondiale è il 14,6%, e investe il 10% dei ricavi in ricerca e sviluppo, in cui è impegnato il 45% dei dipendenti. Quanto alle materie prime, ovvero le «terre rare», bastano due cifre per capire lo strapotere cinese, quindi di Huawei: solo nel 2017 la Cina ne ha estratto 120 mila tonnellate, mentre gli Stati Uniti ne hanno prodotto appena 43 mila tonnellate negli ultimi 20 anni.

Se il futuro è quello delle auto elettriche, delle auto a guida autonoma, dei robot domestici, delle fabbriche e degli ospedali dotati di robot guidati dall’intelligenza artificiale, è evidente che la Cina, avendo il quasi monopolio delle terre rare, sarà la maggiore potenza mondiale del settore. E già questo basta e avanza per indisporre uno come Donald Trump, che si è fatto eleggere all’insegna dell’America first, e non accetta di farsi superare dai cinesi. Ma se si aggiunge il sospetto americano, gridato ad alta voce da Cia, Fbi e Nsa, che Huawei possa utilizzare i suoi prodotti e le sue reti di telecomunicazione per spiare i paesi occidentali, e «rubarne» non solo altri segreti tecnologici, ma anche informazioni segrete di tipo militare, fino a minacciare la sicurezza degli Usa e dei suoi alleati, ecco spiegato lo scenario di tensioni politiche e diplomatiche degli ultimi mesi, che sta avendo dei riflessi anche in Italia, alla vigilia della visita di Xi Jinping a Roma.

In Canada, qualche mese fa, è stata arrestata Meng Wanzhou, figlia del fondatore di Huawei, nonché direttrice finanziaria del gruppo, per il sospetto che abbia violato le sanzioni contro l’Iran, esportandovi prodotti vietati dall’embargo occidentale. Liberata su cauzione, la manager cinese ha però dovuto consegnare il passaporto, in attesa del processo. Un caso di risonanza mondiale, a cui hanno fatto seguito, da parte dell’amministrazione Trump, degli inviti perentori agli alleati perché non coinvolgano Huawei nei piani per il 5G: un boicottaggio a cui hanno aderito immediatamente Australia, Nuova Zelanda e Giappone.

Non per questo la Huawei si è arresa: ha fatto sapere di avere in tasca 25 accordi commerciali per il 5G in vari paesi, e di avere in corso trattative per aggiungerne altri. Senza tralasciare l’inaugurazione di nuove sedi nei paesi europei, come quella aperta giorni a fa al Villaggio Lorenteggio di Milano. E poiché sono numerosi gli analisti convinti che Huawei sia destinata a diventare l’impresa più potente al mondo, è scontato che Trump continuerà la sua guerra, per impedire che ciò accada. Ma forse è troppo tardi: il gap delle terre rare, ormai, appare incolmabile.

(articolo pubblicato su Italia Oggi)

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