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Vi dico cosa combinano WeWork e Netflix. Parla Stefano Feltri (ProMarket)

Le ultime notizie su WeWork, Netflix, Uber, Bloomberg e non solo commentate da Stefano Feltri, neo direttore di ProMarket.org, nella rubrica "Mark to Market"

La mancata quotazione di WeWork (bolla evitata?), le vicissitudini di Uber (licenza ritirata a Londra) e la concorrenza di Disney+ e Amazon Prime Video a Netflix sono da approfondire. Che ne pensi di WeWork?

C’è stata una fase in cui le start up si quotavano in Borsa per fare il salto di qualità e continuare a crescere grazie all’iniezione di capitale fresco. WeWork – un’azienda che prende in affitto a lungo termine edifici che poi ristruttura e riaffitta come spazi da ufficio a breve – è parte di una generazione diversa: la quotazione serve ad arricchire il fondatore e i suoi soci iniziali, che fanno miliardi scaricando sugli altri investitori il rischio che la start up si riveli un fallimento. Con WeWork, per fortuna, gli investitori hanno rifiutato di farsi spennare e hanno fermato quella che doveva essere una quotazione da 45 miliardi. Il castello di carte è crollato, il carismatico fondatore Adam Neumann è stato licenziato, anche se con una buonuscita da oltre un miliardo che dimostra quanto avesse distorto la governance dell’azienda nella direzione di una monarchia assoluta.

Un caso isolato o ci sono tante WeWork pronte ad esplodere?

Se gli investitori, finora affamati di rendimenti in un mondo di tassi zero, cominciano a diventare diffidenti, Neumann non sarà il solo a saltare. Uber, con i suoi 20 miliardi di perdite cumulati, è la prima della lista.

Come vanno davvero i conti di Netflix? E come può continuare a crescere?

Il modello di Netflix si fonda su una crescita continua degli abbonati che giustifica investimenti giganteschi in contenuti originali, ormai siamo a 15 miliardi all’anno. Ma la crescita degli abbonati sta rallentando, Netflix ne dichiara 158 milioni e pare impossibile possa mai arrivare a quei 700-750 impliciti nel suo attuale prezzo di Borsa. La concorrenza sta aumentando. I servizi in streaming negli Usa sono oltre 200, ma alcuni sono in grado di sottrarre molti utenti a Netflix. L’ultimo arrivato è Disney+ che ha Star Wars, i Simpson, i cartoon e perfino lo sport. Se per i servizi di streaming vale quello che abbiamo visto per i quotidiani on line – i pochi che si abbonano, pagano una sola testata, ma due-tre – per Netflix saranno dolori.

Ho visto che su ProMarket vi state occupando molto di una nuova procedura in consultazione della Sec sul voto delle assemblee. Molto tecnica la questione. Ci aiuti a capire portata e rilevanza?

E’ un po’ complesso, ma in sintesi: gli investitori istituzionali (come i fondi pensione) detengono circa l’80 per cento del capitale delle società quotate a Wall Street e per legge sono obbligati a votare alle assemblee dei soci, ma non hanno tempo di studiare le informazioni per tutte le aziende di cui sono soci. Quindi pagano degli appositi consulenti, i proxy advisors, per dare indicazioni di voto. Due aziende, ISS e Glass Lewis, hanno quasi tutto il mercato e gli amministratori delegati e i vertici delle società quotate sono sempre più insofferenti verso lo strapotere di questi due proxy advisors che hanno anche la pretesa di condizionare le decisioni delle assemblee su temi come la trasparenza degli stipendi dei vertici, la lotta alla crisi climatica e l’uguaglianza di genere. La Sec, la Consob americana, ha annunciato un nuovo set di regole che recepisce le istanze degli amministratori delegati: se un proxy advisor vuole far votare i suoi clienti contro i manager della società, deve prima anticipare le critiche all’ad, rivelare con quale metodologia ha elaborato la posizione e, se questa non piace all’ad, rischia anche conseguenze legali.

Ho visto che hai sfruculiato anche con un tweet Bloomberg (e metto tuo tweet e pezzo). Va be’, allora è proprio vero che fate il tifo per la Warren…

Ho scritto un pezzo per commentare l’incredibile statement del direttore di Bloomberg News, John Micklethwait, che spiega come gestiranno la campagna presidenziale del loro editore. Bloomberg, una delle grandi testate globali con risorse e pubblico per fare grandi inchieste, non indagherà su Bloomberg e neppure sugli altri candidati Democratici. Se Bloomberg avrà la nomination, par di capire, addio giornalismo investigativo anche su Donald Trump. Con i suoi 30 milioni di dollari già investiti nella campagna elettorale, Bloomberg sta cercando di comprarsi la Casa Bianca e il primo risultato della sua corsa è aver peggiorato la qualità del dibattito pubblico. Per uno col suo patrimonio, costa meno ottenere la presidenza che pagare la tassa sui patrimoni che Elizabeth Warren gli infliggerebbe se alla Casa Bianca ci arrivasse lei. Peggio di Trump non si può avere nessuno, ma meglio di Bloomberg sì.

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