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Tim Open Fiber

Tim, Open Fiber e il valore delle reti. Analisi

L'analisi di Maurizio Matteo Dècina, analista finanziario ed economista, docente del corso di Economia dell’ICT all’università Tor Vergata

Un recente studio di JP Morgan pone un grande interrogativo: fusione o coinvestimento per la rete fissa? Una tematica che avevo già tentato di affrontare il mese passato con un modello di calcolo simulativo sugli impatti macroeconomici, tra le altre cose ripreso dallo stesso report di JP Morgan apparso pochi giorni fa.

Dal lato della fusione bisogna specificare che valutazioni di Open Fiber superiori ai 3 miliardi siano ottimistiche. Perlomeno ciò è quanto emergerebbe dallo studio simulativo dei flussi di cassa in relazione ad una serie di variabili chiave (modello semplificato messo a disposizione di tutti per realizzare simulazioni), già che il metodo dei multipli ha poca ragione di esser considerato per l’assenza di un flusso attuale solido e costante. La realtà del settore della rete fissa deve fare i conti con le lunghe tempistiche di ritorno degli investimenti e con una sovrapposizione di soluzioni tecnologiche valide, non ultima quella del 5G, in relazione ad un mercato limitato da una capacità di spesa fissa. Se si considerano i flussi di cassa reali di Open Fiber, i risultati potrebbero essere anche inferiori all’entità del capitale investito comprensiva di una remunerazione congrua (valutazione che a questo punto appare l’unica possibile). Facendo però attenzione che in casi di costo opportunità del capitale molto elevato, pari ad esempio al 15%, il valore attualizzato netto dei flussi di cassa è prossimo allo zero per effetto dell’attualizzazione.

L’incertezza e la debolezza dei flussi di cassa della rete fissa, oltre a suggerire che l’ipotesi migliore possa essere quella della fusione (anche perché la riduzione dei costi è minore di circa due miliardi rispetto ad uno scenario di coinvestimento) introduce una tematica ancora più importante: il rafforzamento della struttura del settore per garantire equità ed efficienza nella crescita del Pil. Quest’ultima è possibile solamente se si incrementano i livelli occupazionali e si sviluppano dei servizi a valore aggiunto, direttamente impattanti sulla produttività e sul benessere sociale, molto distinti da quei contenuti e da quella esplosione di social network che al contrario stanno cannibalizzando risorse in maniera spesso improduttiva. Effettivamente, in una fase di debolezza degli operatori nazionali, tra privatizzazioni, scalate a debito e duplicazioni infrastrutturali a carico del contribuente, il banchetto degli over the top rischia di presentare un conto salatissimo, senza però scordare i grandi benefici per i consumatori.

Aldilà delle somme monetarie sottratte all’erario in seguito agli intricati sistemi di elusione fiscale, la maggior parte degli effetti negativi di questi nuovi player è provocata dalla perdita dei posti di lavoro al livello complessivo poiché il fatturato per addetto è in media più di dieci volte superiore alla media delle imprese italiane. Ciò significa necessariamente che in un sistema economico a risorse limitate, se la domanda aggregata rimanesse invariata (quantità di moneta fissa), per ogni posto di lavoro addizionale generato se ne perderebbero dieci negli altri settori (editoria, pubblicità, contenti, telecomunicazioni….). Ovviamente il sistema non ha risorse fisse poiché la domanda aggregata cresce, ma la crescita del sistema è talmente piccola rispetto al divario occupazionale tra Ott ed altre imprese che è quasi impossibile poter mascherare un saldo occupazionale negativo al livello globale.

Oltre ad una forte tassazione per riequilibrare questi effetti occorre una ripianificazione strategica che abbini piani infrastrutturali a servizi a valore aggiunto supportati da incrementi occupazionali. Il Pil non cresce con i social network o con i motori di ricerca, per la verità neanche con l’industria 4.0 o con la IOT qualora la robotizzazione non sia seguita da una ricollocazione più che proporzionale della forza lavoro liberata (che quasi mai avviene in automatico). Da questi piccoli esempi si intuisce immediatamente che la crescita economica passa per solidi piani economici centralizzati e focalizzati sull’incremento dei livelli occupazionali che possano garantire una maggiore capacità di spesa per assorbire la crescita della produzione stimolata dal progresso tecnologico.

Occorre dunque un nuovo assetto solido delle telecomunicazioni italiane poiché nelle ultime due decadi, tra contese epocali (pubblico vs privato, rame vs fibra, monopolio vs concorrenza…) errori di mancato adattamento ai cambiamenti e negligenze politiche, stiamo regalato il settore a soggetti terzi il cui unico scopo è il profitto fine a se stesso.

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