Acque ancora una volta agitate in materia di lavoro agile (o smart working), di cui, carsicamente, si torna a dibattere: dopo un periodo di sostanziale letargo, il lavoro da remoto ha nuovamente fatto capolino sui giornali italiani e nel discorso pubblico, polarizzando, come al solito, le posizioni. E rendendo evidente come, dopo l’esperienza emergenziale dettata dalla pandemia di solo pochissimi anni fa, si faccia ancora fatica a mandare a memoria la lezione fondamentale: utilizzare la lente ideologica quando si parla di lavoro a distanza è una sonora perdita di tempo.
La notizia che ha fatto saltare più d’uno sulla sedia è stata quella dell’aut aut di Andy Jassy, Chief executive di Amazon, che lo scorso 16 settembre ha comunicato via e-mail ai lavoratori del colosso delle vendite online la decisione di cancellare il lavoro da remoto e di ritornare al lavoro a tempo pieno in ufficio dall’inizio del prossimo anno, così da rafforzare la cultura interna dell’azienda.
ùNon esattamente un fulmine a ciel sereno, in realtà, dato che, fra le big company americane, Disney e Tesla avevano già annunciato, tra il 2022 e il 2023, marcia indietro sul lavoro fuori ufficio (significativamente, Elon Musk aveva rimarcato su Twitter che chi non fosse stato d’accordo, avrebbe potuto andare altrove a far finta di lavorare). Altri grossi calibri, al contrario, vanno in direzione opposta, come nel caso di Spotify, la cui direttrice delle risorse umane, Katarina Berg, ha recentemente confermato la politica di totale libera scelta del luogo di lavoro da parte dei dipendenti dell’azienda.
D’altro canto, se Massimo Giannini, ex direttore de La Stampa ed editoralista de La Repubblica, ha scritto, senza mezzi termini, di detestare lo smart working, in quanto “c’è una dimensione sociale, nel lavoro, che nessun device ti potrà mai restituire”, solo pochi giorni fa è stato siglato un accordo quadro in Campidoglio tra il Sindaco di Roma e Commissario straordinario per il Giubileo, Roberto Gualtieri, la Regione Lazio, la Città metropolitana e le organizzazioni sindacali e datoriali per promuovere la stipula di accordi aziendali per implementare le giornate di lavoro da remoto nel corso del prossimo anno e tentare di contenere, così, gli inevitabili disagi in termini di congestione della circolazione che l’arrivo di milioni di pellegrini comporterà per la Capitale.
L’apparente strabismo che i diversi approcci sembrano profilare testimonia, una volta di più, della continua tensione che attraversa trasversalmente sia le organizzazioni private, sia le organizzazioni pubbliche, in materia di lavoro da remoto, per alcuni catastrofe organizzativa e dannosa e confusionaria anarchia, per altri miracolosa pozione che cambierà il mondo del lavoro e non solo. Tuttavia, tutti hanno ragione, almeno in parte. E, allo stesso tempo, tutti hanno torto, almeno in parte. Vediamo perché.
Scriveva Domenico De Masi, nel suo “Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente“ Marsilio, 2020), che la terza ondata della società post-industriale (o dell’informazione) sta avendo impatti significativi sulle modalità di lavoro degli individui: oltre alla progressiva destrutturazione delle dimensioni del tempo e dello spazio, (ri)emergono valori che la società industriale aveva messo in secondo piano, come l’intellettualizzazione di tutte le nostre attività, e “la qualità del lavoro, ancor più del salario, diventa l’obiettivo principale dei lavoratori, dei cittadini e dei governi”. È un processo che la pandemia ha accelerato, facendo sì che in molti cominciassero a porre in dubbio il dogma del carattere onnivoro del lavoro, riattribuendo il giusto valore alle diverse categorie della vita quotidiana, tra attività lavorativa, tempo libero, affetti, ozio creativo. Si è riproposto il tema della lentezza e della riflessione come contraltare di una società in cui, complice l’onda della digitalizzazione a tutto campo, si corre a perdifiato (illuminanti, da questo punto di vista, i risultati di un recente sondaggio effettuato fra gli abbonati del quotidiano Domani).
L’emergenza sanitaria da Covid-19, da questo punto di vista, ha rappresentato il punto di rottura, lo spartiacque fra il prima e il dopo. E ha portato con sé la consapevolezza che in molti casi è possibile lavorare anche al di fuori delle quattro mura dell’ufficio e svincolati da un orario prestabilito. Nessun infingimento: senza quella maledetta pandemia, con ogni probabilità lo smart working sarebbe rimasto confinato nello sgabuzzino, trattato, al più, come divertente sperimentazione. Per molti ha significato, in maniera certamente imperfetta e claudicante, provare, forse per la prima volta, il brivido del lavorare in autonomia e del dover render conto del proprio operato senza essere tenuti per mano. Per altri, in particolare per una (buona) parte del management, cambiare registro dall’oggi al domani ha rappresentato l’horror vacui, impreparati a gestire l’inaspettato.
Negli ultimi anni, dopo la fine dell’emergenza, l’entusiasmo iniziale ha lasciato il posto ad atteggiamenti ambivalenti: la parte più avanzata del settore privato (o para-privato) continua a fare massicciamente uso del lavoro agile, complice il vantaggio in termini di più che consistenti risparmi; nel settore pubblico, dopo una interminabile sequela di interventi normativi, direttive e commissioni di studio, la burocrazia ha digerito l’indigeribile, disciplinando compiutamente il lavoro agile nel CCNL del comparto Funzioni centrali del 9 maggio 2022 e fissando, nella maggior parte dei casi, lo standard di un massimo di due giorni da remoto a settimana, stabilendo a priori i giorni da destinare al lavoro agile su base plurimensile (o annuale), con il rischio di irrigidire e ingessare uno strumento che vede nella sua innata elasticità l’aspetto più innovativo e dirompente.
Dove siamo oggi? L’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano ci dice che nel 2023 i lavoratori da remoto sono stati più di tre milioni e mezzo, in leggera crescita rispetto al 2022, e che nel 2024 cresceranno ancora. Di questi, la stragrande maggioranza opera nelle grandi imprese, nelle PMI e, in misura minore, nelle microimprese, mentre il 16% lavora nel settore pubblico (pari a circa 500.000 individui su più di tre milioni di pubblici dipendenti). Sono veri lavoratori smart, tuttavia, solo coloro che hanno flessibilità di orari e operano per obiettivi: sono quelli che effettivamente presentano livelli di benessere e coinvolgimento più alti dei lavoratori tradizionali in presenza, i quali mantengono livelli migliori rispetto a coloro che lavorano semplicemente da remoto, senza autonomia e responsabilità. Questo è il punto da cui partire: il lavoro agile contribuisce a responsabilizzare le persone e, conseguentemente, a migliorare clima organizzativo e performance delle organizzazioni. Un gioco win-win: tutti sono contenti. Sembra facile, vero? Non lo è, in realtà.
Devono crederci i manager, i dirigenti, i quadri. Per funzionare, va abbandonato il modello basato sulla direzione e sul controllo in favore di quello basato sulla motivazione e sulla fiducia. Il boss deve cambiar pelle e sfoggiare doti di leadership: se sono chiari e condivisi missione, percorso e obiettivi, poco importa la presenza dal lunedì al venerdì. Devono crederci, allo stesso tempo, i dipendenti, le gambe dell’organizzazione, che devono essere disposti al cambiamento e a guadagnare autonomia e responsabilità. È un processo di cambiamento profondo e di mutuo apprendimento che deve partire dalla consapevolezza che “stare in smart” non significa lavorare a distanza per qualche giorno alla settimana o al mese, ma rivoluzionare le modalità secondo le quali si opera, indipendentemente dalle usuali coordinate di tempo e spazio, e cambiare la cultura interna dell’organizzazione: è, come ricorda ancora il Politecnico di Milano, un nuovo “modello organizzativo, fondato sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”.
Hanno allora ragione e torto tutti i tifosi delle opposte fazioni, almeno in parte. Ha ragione chi teme che un uso indiscriminato dello strumento rischi di allentare gli indispensabili legami sociali che sono parte vitale di ogni organizzazione, che persegua il profitto o l’interesse comune non fa differenza. E ha ragione chi maledice la miopia di chi non vuole abbandonare la propria comfort zone, sordo a ogni necessità di conciliazione di vita-lavoro dei dipendenti e ancorato saldamente nel porticciolo della tradizione, al “si è sempre fatto così”. Ha torto, tuttavia, chi non riesce a immaginare modalità nuove per tenere in piedi le relazioni sociali e lavorative in un quadro di cambiamenti epocali. E ha egualmente torto chi vede lo smart working come diritto acquisito, rivendicabile a prescindere, trascurando che il fine ultimo di ogni organizzazione è avere clienti e cittadini soddisfatti. È difficilmente immaginabile, per quei lavoratori salariati che operano nelle aziende e nella pubblica amministrazione e che lavorano sulle informazioni, un’organizzazione totalmente remotizzata, 5 giorni su 5. Almeno per il momento. È ancora necessario lo scambio vis à vis, l’interazione personale, il sentirsi parte di una squadra: rendere i processi del tutto impersonali e asincroni, affidandosi esclusivamente a posta elettronica, condivisione di documenti e videoconferenze può essere efficace ma fa diluire l’indispensabile parte di socialità propria di qualsiasi attività umana. Senza parlare delle possibili conseguenze negative a lungo termine, come avverte l’Agenzia europea di salute e sicurezza sul lavoro, dovute a un utilizzo estensivo e massiccio delle tecnologie digitali.
Allo stesso tempo, nella società dell’informazione e dell’intelligenza artificiale è impensabile continuare a adottare pervicacemente schemi lavorativi propri del XX° (XIX°, in realtà) secolo, governati dalla sacralità del cartellino e della scrivania. Il futuro deve essere scandito da modalità ibride che alternino la presenza in sede con il lavoro a distanza sulla base di un’organizzazione matriciale di team diversi che perseguono obiettivi dei quali rendere conto alla dirigenza, il cui compito è coordinare in maniera efficace una rete apparentemente anarchica ma, in realtà, policentrica e polimorfa. Autonomia, responsabilità e risultato sono i principi cardine che vanno sperimentati, guadagnati, messi alla prova, soppiantando la cultura dell’adempimentalizzazione. Non c’è una bacchetta magica a disposizione o una formula buona per tutti. È un processo che va coltivato, perseguito, sperimentato attraverso salite e curve, fallimenti e successi, risultati e buchi nell’acqua. Va ricostituito il patto sul luogo di lavoro, responsabilizzando e valutando, misurando la bontà dell’applicazione di modalità smart sulla base dei risultati ottenuti. Sono stati conseguiti gli obiettivi programmati? Sono stati erogati i servizi? I tempi sono stati rispettati? Come sempre, misurare e valutare sono la chiave per migliorare, sulla base delle concrete esigenze dell’organizzazione. Anzi, della singola cellula di un’organizzazione complessa.
Quali sono, allora, gli snodi da tener presenti per fare passi avanti? Eccone cinque.
Il primo. Lo smart working è e resta, non va dimenticato, una leva organizzativa. Repetita iuvant. Sta alla singola organizzazione (ancora una volta, pubblica o privata non cambia molto) decidere come, quando e dove applicarla, a seconda della propria missione istituzionale e dei vantaggi che, concretamente, possano essere portati a casa. Ed è una leva che deve agire nel mezzo di processi trasformativi: non è la panacea di tutti i mali ma sarà tanto più efficace quanto calata in una realtà in cui si tenda, in ogni caso, verso una logica di lavoro per obiettivi e nella quale siano prevista la compresenza di altre forme di flessibilità, sia in termini di orario, sia in termini di luogo di lavoro, soprattutto nel momento in cui viene messa in discussione la settimana lavorativa su cinque giorni e si discute della cosiddetta settimana corta (il caso giapponese è, da questo punto di vista, più che significativo).
Il secondo. Il lavoro agile non è per tutti. Al netto delle attività maggiormente operative e che richiedono, per loro natura, la presenza fisica, anche fra le attività definite, con orrendo neologismo, “smartabili”, può non essere una modalità applicabile nella medesima misura. È onere dell’organizzazione operare un vaglio del cosa, del chi e del come, tenendo presente che è naturalmente indispensabile un’adeguata dorsale informatica e digitale che metta in grado tutti i componenti della struttura che lavorino da remoto di operare con la medesima efficacia e senza penalizzazioni. Non è, dunque, un bonus. È una facoltà offerta ai lavoratori e alle lavoratrici, su base facoltativa e consensuale, la cui effettiva applicabilità soggiace, tuttavia, ad una seria analisi delle esigenze avvertite e degli obbiettivi da raggiungere da parte dell’organizzazione.
Il terzo. Lavorare a distanza è, anche e innegabilmente, uno strumento di conciliazione. Avere la possibilità di riorganizzare i propri tempi di vita e essere in grado di far fronte alle necessità personali e familiari senza il paletto dell’orario di lavoro è un elemento di straordinaria importanza in termini di gestione del benessere personale e, di converso, di migliori prestazioni lavorative, potendo contemperare le fondamentali esigenze della dimensione privata con i doveri professionali: basti pensare al disvalore sociale ed economico del pendolarismo o degli spostamenti all’interno delle grandi città e al conseguente guadagno in termini di tempo dedicato al lavoro. In fin dei conti, è preferibile poter contare su un individuo sereno, collaborativo e motivato o con una risorsa insoddisfatta, stressata e demotivata, se non addirittura conflittuale? Ancora una volta, il lavoro agile non promette miracoli ma, senza dubbio, contribuisce a incidere positivamente sul clima organizzativo. Ogni organizzazione dovrà, dunque, valutare dove collocarsi lungo il continuum leva organizzativa/strumento di conciliazione.
Il quarto. Il lavoro agile non vale (ohibò!) per la dirigenza. il management che gestisce personale da remoto può trovarsi spiazzato nel mezzo di uno spaesante cambio di paradigma, di una frattura nella cultura organizzativa interna, particolarmente significativa nelle pubbliche amministrazioni, dove la sfida è quella di poter virare, una volta per tutte, verso una attività per risultati. È, tuttavia, una sfida senza sconti, nel settore pubblico come in quello privato, che impone a chi riveste posizioni apicali di reimparare a camminare prima di riprendere a correre. Se spetta proprio alla dirigenza, come è facilmente intuibile, il compito/dovere di acconciarsi alla bisogna e accompagnare il processo trasformativo in atto, pare, tuttavia, inappropriato parlare di smart working per questa particolare categoria che, alla luce del principio di autodeterminazione nell’organizzazione del proprio lavoro, caratterizzato da autonomia e funzioni di impulso e coordinamento, dovrebbe poter naturaliter optare per la presenza o meno quando valutato opportuno o necessario. E se il manager/dirigente gestisce il proprio tempo (e non l’orario) di lavoro in funzione del conseguimento dei risultati, occorre, allora, giungere alla logica conclusione della ovvia inapplicabilità dell’istituto, come nel caso della durata massima della prestazione lavorativa e del lavoro straordinario.
Il quinto. Ma chi ce lo fa fare? Risintonizzare la propria cultura interna costa tempo e fatica, soprattutto per il settore pubblico, tradizionalmente più rigido e meno incline al cambiamento. L’annunciata rivoluzione post-pandemica ha tirato il freno e molto spesso sono stati avviati i processi di normalizzazione della novità. Non mancano casi in cui la sfida è stata accettata rilanciando: l’iniziativa Flex4Future di Sace, gruppo partecipato dal Ministero dell’economia e delle finanze, ad esempio, prevede orari totalmente flessibili, assenza di limiti alle giornate da remoto e settimana lavorativa di quattro giorni. Spesso, tuttavia, si fa fatica a intravedere quali vantaggi possa comportare un deciso cambiamento di rotta; anzi, per taluni all’orizzonte pare stagliarsi un mero surplus di impegno di gestione, dagli esiti poco prevedibili e con nessuna certezza di concreti ritorni in termini di efficienza e/o profitto. Col rischio che si opti per un prudente risparmio di energie e risorse, restando invischiati in un immobilismo che può rivelarsi perdente. Da questo punto di vista, va detto, le evidenze sembrano però portare a conclusioni opposte: secondo l’Harvard Business Review, ad esempio, la tipologia ibrida del lavoro, con riunioni in sede fra i vari gruppi una o due volte la settimana, appare vincente sia in termini di efficienza, sia per la soddisfazione dei dipendenti. È, di fatto, una scommessa su se stessi.
Tirando le somme, sembra potersi affermare che lo smart working è qui per restare. In quali modalità e con quali risultati effettivi è, tuttavia, ancora presto per dirlo. Una delle sfide principali delle organizzazioni sembra essere quella di gestire e internalizzare nuove modalità di lavoro, in un più ampio quadro di trasformazioni epocali, riuscendo a contemperare con efficacia missione aziendale o finalità pubbliche, da un lato, con il benessere e le esigenze di conciliazione del capitale umano, dall’altro. Saranno gli sviluppi dei prossimi anni, lasciando da parte ogni pregiudizio, a mostrare se il remote working riuscirà ad abbandonare la culla e sarà parte della quotidianità del lavoro di domani, in tanta parte ancora da immaginare.