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Russia Stazione Spaziale

Guerra Ucraina, cosa succederà alla Stazione spaziale internazionale

La Russia parla insistentemente di voler lasciare la Stazione spaziale internazionale. Ma quanto può essere vero questo proposito? L'approfondimento di Enrico Ferrone

 

Nel tam tam delle informazioni, è sempre il sensazionalismo a far maggior presa sul pubblico di lettori e ascoltatori. E così è per il destino della Stazione Spaziale Internazionale, che in questi giorni sta stimolando particolarmente l’attenzione italiana, visto che da fine mese scorso tra gli ospiti è salita Samantha Cristoforetti, alla sua seconda missione sull’avamposto a 400 km. dalla Terra.

Ma a turbare le già travagliate relazioni tra Russia e resto del mondo c’è ora un’intervista rilasciata alla Tass da Dmitry Rogozin, amministratore dell’agenzia spaziale russa Roscosmos.

«La decisione è già stata presa, non siamo obbligati a parlarne in pubblico». Così si è espresso l’ex vice ministro della Difesa e prima ancora ambasciatore presso la Nato ma sicuramente pupillo di Vladimir Putin, oggi a capo di uno dei più importanti strumenti di visibilità, ma anche di aggressione in mano al potere di Mosca. A leggerla così sembra l’ennesima minaccia al mondo occidentale.

Di questo politico così vicino al presidente sappiamo che conosce bene le leve comunicative al punto da aver condiviso sul suo profilo social un video su Zelensky che chiedeva ai suoi concittadini di deporre le armi, rivelatosi poi un falso; ma questa volta proviamo ad elaborare qualche considerazione più approfondita.

Dopo 22 anni di attività nello spazio, possiamo dire di conoscere abbastanza bene la Stazione Spaziale Internazionale. Al punto da sapere che la sua genesi risale ad un’azione del presidente americano Ronald Reagan che nel 1983 aveva convinto il Congresso a finanziare un programma di difesa strategica che avrebbe reso obsoleti gli arsenali nucleari sparsi sul territorio sovietico. Quello che lui amava definire l’impero del male.

Era lo SDI (Strategic Defense Initiative), conosciuto come “scudo spaziale”. Un sistema di difesa articolata su quattro fasce diverse, corrispondenti ad altrettante fasi della traiettoria di un ipotetico missile balistico intercontinentale lanciato da un poligono o da un sottomarino. Il costo di questo programma era molto elevato, oltre 60 miliardi di dollari per uno sviluppo tecnologico innovativo e coinvolgente un alto numero di risorse e scienziati. La storia è nota ed è stata raccontata in molte versioni. Diversi analisti addebitano allo scudo la dissoluzione dell’impero sovietico, intimidito dall’aggressività del nemico capitalista e terrorizzato dall’impossibilità di sostenere una spesa adeguata alla sfida. E che fare di tutto quanto immagazzinato in termini di conoscenze e di capacità industriali? L’idea di creare una cooperazione pacifica nello spazio che mettesse a fattor comune i moduli orbitanti di Salijut, Mir e degli Apollo non utilizzati per le spedizioni lunari piacque un po’ a tutti, furono molte le nazioni disposte alla cooperazione e fu anche una buona occasione perché i due ex rivali si controllassero in uno spazio non molto più grande di uno stadio di calcio, ma sufficiente per realizzare un po’ di esperimenti e soprattutto, far vetrina delle proprie capacità.

E così, già nel giugno 1992, George Bush (padre) e Boris El’cin strinsero gli accordi che portarono a Washington il 29 gennaio 1998 i rappresentanti di 15 nazioni, tra cui per l’Italia il ministro della Ricerca Luigi Berlinguer, per siglare un memorandum che avrebbe sancito il quadro per la cooperazione tra i partner sulla progettazione, lo sviluppo, il funzionamento e l’utilizzo del più grande progetto internazionale mai pensato.

Innegabilmente è stato un passo enorme compiuto da quasi tutti i paesi industrializzati, esclusa la Cina, che già allora godeva delle ostilità occidentali. La Stazione fu realizzata pezzo dopo pezzo in orbita a partire dal primo segmento russo, lanciato il 20 novembre 1998 a bordo di un razzo Proton senza equipaggio raggiunto due settimane più tardi dallo space shuttle Endeavour, con a bordo il modulo Unity della Nasa, per essere poi completata il 5 giugno 2011 con un tempo stimato di oltre 1.000 ore di lavoro e più di 200 uscite extraveicolari. Se tuttavia oggi qui ne tracciassimo la sua storia avrebbe il sapore di un de profundis che sinceramente ci auguriamo di non dover recitare.

A quei tempi a capo dell’Agenzia spaziale europea (Esa) c’era Antonio Rodotà, un tecnico di alto livello che veniva dal mondo dell’industria e aveva molte competenze sia di politica industriale che di relazioni internazionali.

L’Italia ebbe buone occasioni di lavoro, principalmente con la realizzazione di moduli polivalenti per poter integrare lo scompartimento dello shuttle e poi le camere Harmony (Node 2) e Tranquility (Node 3) con un impegno di circa 520 milioni di euro tramite i programmi Esa e di 260 milioni di euro con programmi nazionali. Va inoltre ricordata CUPOLA, una semisfera di tre metri di diametro con sei finestre laterali e una finestra superiore, un progetto tutto nazionale per consentire un contatto visivo degli astronauti con l’esterno della stazione orbitante.

Ora la Russia parla insistentemente di volerla lasciare. Ma quanto può essere vero questo proposito? Con un atteggiamento piuttosto rassicurante, almeno verso il suo regime, Nathan Eismont del Russian Space Research Institute, ha affermato in un’apparizione televisiva che il funzionamento della Stazione spaziale internazionale (Iss) diventerebbe quasi impossibile se la Russia si ritirasse dal programma. Ed è tecnicamente ammissibile dal momento che la posizione orbitale pressoché circolare della Stazione è dovuta all’azionamento periodico dei due motori principali posti sul modulo di servizio Zvezda. Quindi è competenza dei russi sostituire i dispositivi e collegarne i contatti quando necessario. Devono essersi infastiditi però in Roscosmos per il fatto che già dal dicembre 2008 la Nasa con la firma di un’intesa con la società Ad Astra Rocket di Houston, ha definito la messa a punto del motore a propulsione al plasma VASIMR, che potrebbe aver reso già obsoleto il sistema propulsivo esistente, con un abbattimento dei costi per il loro mantenimento.

Un altro fattore che non è stato gradito al Cremlino è sicuramente la politica aggressiva di SpaceX, che con il primo stadio riutilizzabile dei suoi vettori, ha ridotto sostanzialmente il costo di ogni lancio e quindi anche il prezzo da pagare per le agenzie che inviano il personale a bordo della Stazione. Se per questo, la capacità imprenditoriale di Elon Musk ha turbato anche i nostri amministratori europei che ancora non hanno saputo rispondere alla sfida americana. Ma questo è un altro discorso…

Ebbene, quando il 30 luglio 2020 i collaudatori Robert Behnken e Douglas Hurley hanno validato che l’America avrebbe ripreso a far viaggiare su propri mezzi gli astronauti occidentali grazie a quello che Regozin ha definito uno dei «talentuosi uomini d’affari che inquinano l’orbita», questa operazione ha strappato definitivamente il monopolio che Baikonur deteneva dal 2011, anno in cui lo shuttle Atlantis ha effettuato il suo ultimo servizio. Per cui dopo il lungo periodo in cui le Soyuz sono state l’unico veicolo in grado di portare astronauti e cosmonauti sulla Stazione — al costo di 85 milioni di dollari a passeggero — ma con una tecnologia piuttosto arcaica concepita da Sergej Pavlovic Korolev nel 1966, oggi c’è un nuovo concorrente e anche un prezzo migliore.

Ci sembrano due elementi, probabilmente non unici come vedremo, che stanno facendo ben cavalcare a Putin il ruolo dello statista offeso dai suoi ex amici mentre la nostra sensazione è che la Russia si vuole liberare di questo costo esorbitante e cerca solo una buona motivazione politica ed economica per utilizzare questa azione come una intimidazione.

Ma c’è ovviamente dell’altro che quella stampa proiettata a dar giudizi e considerazioni non sempre con la necessaria obiettività deve aver dimenticato: la decisione di liberarsi di un peso economico superiore a qualunque interesse scientifico e di visibilità è in corso d’opera da molto prima che si palesassero le aggressioni contro l’Ucraina. Vladimir Soloviev, direttore di volo del segmento russo ha prospettato pubblicamente una nuova impresa che possa far convergere tutta l’esperienza accumulata in tanti anni di progettazione e di permanenza umana nello spazio, a partire dai primi anni Settanta. Un patrimonio strategico appetibile a molte potenze. E poiché Donald Trump, quando era presidente rese note le sue intenzioni di far tornare gli Stati Uniti sulla Luna, da qualche parte si accese una spia di allarme perché il nostro satellite naturale poteva tornare ad essere un elemento di competizione con il grande mostro occidentale: ma per un’impresa del genere è meglio avere degli alleati. Luna 26, Luna 27 e Luna 28 avrebbero potuto tranquillamente trovare sponda con le sonde lunari cinesi Chang’e 4, Chang’e 5 e Chang’e 6 per cui riunire i progetti fu il pensiero per raggiungere più velocemente buoni risultati e riprendere una strada con compagnie diverse. Visitando il forum OBOR (One Belt, One Road) di Pechino nel maggio 2020, Putin compiacendosi con il presidente cinese Xi Jinping disse: «Collaboriamo con successo nello spazio e ci sono tutte le possibilità che avanzeremo in questa cooperazione. La fornitura dei nostri motori a razzo alla Cina è all’ordine del giorno. Ci sono tutte le possibilità per farlo». Sembra strano che nessuno abbia fatto caso a queste parole e che non ci sia domandato nulla sulle finalità dell’accordo bilaterale tra Russia e Cina con un ricco pacchetto di collaborazioni per l’esplorazione lunare e cosmica.

È comprensibile — e onestamente molto pericoloso — che i due giganti accomunati da regimi sicuramente non democratici si rivolgessero l’uno all’altro, chi per proporre motori più potenti, chi per offrire tecnologia elettronica specificamente mirata. Una risposta dopo tutto ai propositi della presidenza Trump in materia di ritorno sulla Luna degli Stati Uniti con un “generoso” allargamento ma solo ai loro alleati più fedeli. Lo scorso anno poi un altro agreement tra Dmitry Rogozin e Zhang Kejian, direttore della China National Space Administration è passato in sordina eppure il documento indicava la volontà di far lavorare assieme i tecnici dei due imperi orientali per creare strutture di ricerca sulla superficie e attorno l’orbita della Luna, con la determinazione in futuro di incrementarne la presenza umana.

Queste annotazioni le consideriamo utili esclusivamente per comprendere che trascurare alcuni segnali per l’opinione pubblica e forse anche da una diplomazia troppo distratta, alla fine fanno il gioco di chi sfrutta gli atteggiamenti ostili per stringere nuove e pericolose alleanze.

Pertanto, noi riteniamo che la rottura di quella che platealmente si può chiamare “amicizia” tra Nasa e Roscosmos era prevedibile già da tempo e sulla base di queste conoscenze, non è stato nessun fulmine a ciel sereno o indicazione di tradimento la frase finemente sfuggita al capo dell’agenzia spaziale russa.

Ma poi è lo stesso ente spaziale americano a non sembrare più interessato alla continuazione per lungo tempo dell’uso della stazione spaziale. E infatti da tempo in America si sta pensando al futuro della SSI con l’attracco di almeno tre moduli della stazione privata di Axiom, per poi separarsi e diventare indipendenti a partire dal 2025, anno in cui si potranno forse aprire le porte del turismo spaziale. Questa data è compatibile con un’eventuale dismissione da parte della Russia? Difficile prevederlo, in un momento così caldo in cui le armi hanno preso il comando di ogni trattativa. Da osservatori dobbiamo sperare che si evitino pericolose manovre improvvise per deorbitare senza controllo un’opera costata un centinaio di miliardi di dollari e che si eviti un’inutile tragedia che sarebbe un grosso peso per l’intera umanità.

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