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Lavoro Ibrido

Protocollo smartworking: paura del futuro?

Che cosa c'è nel protocollo per disciplinare il lavoro agile nel settore privato. L'intervento di Paolo Stern, presidente di NexumStp spa

 

Il 7 dicembre il governo, per il tramite del ministro del Lavoro, e 26 organizzazioni sindacali datoriali e dei lavoratori hanno sottoscritto un protocollo per disciplinare il lavoro agile. L’intesa traccia le linee guida che dovranno essere riprese dalla contrattazione collettiva. A valle della firma dell’accordo le parti hanno rilasciato alla stampa dichiarazioni in cui esprimevano grande soddisfazione per quanto fatto. Da Maurizio Stirpe, vicepresidente di Confindustria, a Luigi Sbarra, segretario della Cisl, tutti hanno espresso compiacimento per i contenuti e per il metodo utilizzato. Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil, ha, forse disvelando il non detto dell’accordo, evidenziato come lo stesso abbia attribuito alla contrattazione collettiva un ruolo che la legge 81 del 2017 non gli riconosceva pur a invarianza del quadro normativo. L’affermazione è paradigmatica dell’impianto dell’intesa. La legge 81 del 2017 non ha previsto infatti alcuna mediazione sindacale per attivare di accordi di smartworking. Gli attori sono le parti individuali e non quelle collettive che invece, con l’accordo, tentano di riprendersi la scena.

Il non essere stato previsto dal Legislatore non vieta in alcun modo alle parti sociali di dire la loro, di integrare il disposto di legge. Ovviamente è facoltà legittima e anzi, per certi versi, auspicabile per avvicinare la norma astratta alle fattispecie concrete ma questo non consente di modificare il baricentro individuato dal Legislatore: operazione invece provata, proprio nelle premesse dell’accordo, secondo il quale “È necessario, altresì, ferme restando le previsioni di legge, valorizzare la contrattazione collettiva quale fonte privilegiata di regolamentazione dello svolgimento della prestazione di lavoro in modalità agile”. A immutate previsioni di legge la fonte privilegiata, in realtà l’unica obbligatoria, è quella del contratto individuale tra datore di lavoro e lavoratore.

Il protocollo ripercorre il testo di legge in modo quasi pedissequo. Nelle sue premesse il Ministro del lavoro evidenzia come, avvalendosi di un Gruppo di studio denominato “Lavoro agile”, abbia esaminato gli effetti dello svolgimento dell’attività di lavoro in modalità di agile sull’organizzazione delle imprese soprattutto nel periodo di pandemia. Il percorso di analisi sperimentale doveva verificare se i vantaggi associati dalla letteratura scientifica al lavoro agile avessero trovato un reale riscontro nella specifica realtà nazionale e quali fossero state le criticità che i lavoratori avessero trovato sul piano operativo e personale nella sua applicazione. L’indagine ha confermato che il lavoro agile può favorire il bilanciamento tra sfera personale e lavorativa, ma anche l’autonomia e la responsabilità individuale verso il raggiungimento degli obiettivi, favorendo altresì un risparmio in termini di costi e un positivo riflesso sulla produttività.

Questo punto di osservazione dovrebbe essere la chiave di svolta per ridare al lavoro agile la connotazione originale che, la sua versione emergenziale, ha fatto venir meno. Lo smartworking che abbiamo conosciuto, a valle degli inviti del presidente del Consiglio Giuseppe Conte a marzo del 2020 nelle ormai storiche dichiarazioni televisive, è stato di fatto una ripresa di una attività vecchia cui è stato assegnato un compito nuovo. Si è trattato di fatto di una sorta di telelavoro tutt’altro che agile attivato con l’intento di evitare lo spostamento delle persone senza bloccare le attività. Molti lavoratori hanno quindi associato la parola smartworking al lavoro da casa, legato magari alle limitazioni alla mobilità e con l’aggravante della gestione dei figli che seguivano percorsi scolastici in DAD. Lo smartworking è altro e bene ha fatto, in questo caso, il protocollo a rifarsi ai principi enunciati dalla legge del 2017.

Nei 16 articoli che lo compongono l’accordo traccia le linee che la contrattazione collettiva dovrà fare proprie, con particolare riferimento a:
• Accordo individuale
• Organizzazione del lavoro agile e regolazione della disconnessione
• Luogo di lavoro
• Strumenti di lavoro
• Salute e sicurezza sul lavoro
• Infortuni e malattie professionali
• Diritti sindacali
• Parità di trattamento e pari opportunità
• Lavoratori fragili e disabili
• Welfare e inclusività
• Protezione dei dati personali e riservatezza
• Formazione e informazione
• Osservatorio bilaterale di monitoraggio
• Incentivo alla contrattazione collettiva

Degno di nota appare il punto in cui viene normata la scansione temporale tra orario di lavoro e quello di riposo. La classica nozione di orario di lavoro viene abbandonata per fare spazio alla locuzione di “fascia oraria”. Infatti, la giornata lavorativa svolta in modalità agile si caratterizza per l’assenza di un preciso orario di lavoro e per l’autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati, nonché nel rispetto dell’organizzazione delle attività assegnate dal responsabile a garanzia dell’operatività dell’azienda e dell’interconnessione tra le varie funzioni aziendali. La prestazione di lavoro in modalità agile può essere articolata in fasce orarie, individuando, in ogni caso, la fascia di disconnessione. Rispetto a ciò viene rafforzato l’obbligo di individuare tale fascia, ovvero l’arco temporale nel quale il lavoratore non deve erogare alcuna prestazione lavorativa. Il datore di lavoro dovrà adottare specifiche misure tecniche e/o organizzative per garantire il rispetto di tale limite.

L’aver abbandonato la nozione classica di orario di lavoro fa venir meno il concetto di lavoro straordinario che, salvo esplicita previsione dei contratti collettivi nazionali, territoriali e/o aziendali, non potrà essere previsto e autorizzato. Sarà sempre possibile per il lavoratore fruire di permessi. Non viene fatto richiamo a quanto previsto dal Legislatore del 2017 che nella legge 81, all’art. 18 primo comma precisava che il lavoro agile potesse articolarsi “anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro”. O meglio nelle premesse, dove si esprimono concetti alti destinati a non atterrare mai, si evidenzia che “Le Parti sociali vedono nel lavoro agile un grande impulso al raggiungimento di obiettivi personali e organizzativi, funzionale, in modo efficace e moderno, a una nuova concezione dell’organizzazione del lavoro, meno piramidale e più orientata a obiettivi e fasi di lavoro…” ma nell’articolato di tale concetto non vi è traccia. Eppure, cicli e fasi di lavoro sono parole funzionali a ogni organizzazione basata su progetti, erano perfino richiamati nel DLgs 276/03 quando si introdussero le collaborazioni coordinate a progetto.

Scorrendo gli articoli del protocollo non troviamo significative modifiche rispetto ai criteri dettati dal legislatore del 2017. Una particolarità balza aglio occhi parlando degli strumenti di lavoro. Si dice che il datore di lavoro, salvo diversi accordi e di norma, fornisca la strumentazione tecnologica e informatica necessaria allo svolgimento della prestazione. Quel “salvo accordi diversi e di norma” lascia la porta aperta al fai da te, ossia alla possibilità che il lavoratore utilizzi i propri mezzi tecnologici per lavorare. Il principio già di per se è anomalo con le prestazioni di lavoro subordinato, ove l’onere degli strumenti di lavoro spetta al datore di lavoro, lo è ancor di più pensando ai rischi informatici che da ciò potrebbero derivare. L’utilizzo dei pc personali è risultato necessario nei primi mesi del 2020 quando lo smartworking emergenziale fu operazione davvero straordinaria, un “si salvi chi può” della continuità aziendale. Oggi però è impensabile ipotizzare che un’impresa si affacci al lavoro agile senza adeguata struttura tecnologica: i rischi connessi alla cybersecurity sarebbe troppo alti.

Al di là delle dichiarazioni di soddisfazione delle parti firmatarie il testo appare privo di slanci e di immaginazione per individuare il lavoro che verrà. Non essendo documento obbligatorio avrebbe potuto, e dovuto, non solo ripercorrere a ribasso quando definito dalla legge vigente ma affrontare i nuovi temi della misurazione economica del lavoro sganciandola dal “fattore tempo”. Mentre su tanti punti la concentrazione del documento è profonda gli obiettivi, i risultati sono appena menzionati. Ci si sarebbe aspettati di individuare meccanismi di misurazione del risultato cui ancorare i risultati economici della prestazione lavorativa. Ha senso dire che nella giornata resa in modalità agile si sia scollegato dal tempo se poi tale parametro è utilizzato per la remunerazione della stessa? Sarebbe stato necessario individuare una retribuzione base necessariamente integrata da una variabile connessa al raggiungimento di obiettivi. Insomma, ciò che si nota di può nell’accordo e quanto non è scritto rispetto a quanto disciplinato.

Senza la declinazione degli obiettivi e la misurazione dei risultati si riparte da un rapporto di lavoro basato sul controllo diretto e ove questo sia impossibile, come in caso dello smartworking, il sistema va in crisi e bene ha fatto il ministro Brunetta che, con pragmatismo che suona un po’ di sconfitta, ha richiamato i dipendenti pubblici in ufficio.

Ulteriore prova di quanto evidenziato è rintracciabile nella richiesta espressa dalle parti sociali di favorire l’utilizzo del lavoro agile anche tramite un incentivo pubblico destinato alle aziende che lo regolamentino con accordo collettivo di secondo livello, in attuazione del Protocollo. Nel 2017 il Legislatore aveva previsto la possibilità di incentivi fiscali e contributivi a favore dello smartworking ma solo se lo stesso avesse permesso incrementi di produttività ed efficienza. Sottili differenze. Senza la ricerca degli incrementi di produttività efficienza, unitamente al miglioramento della qualità della vita del lavoratore, il lavoro agile inevitabilmente diventa pigro.

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