Lo spazio sembra essere diventato un argomento ormai quotidiano: rispetto al passato, quando appariva relegato allo stretto giro dei professionisti del settore, oggi il tema può considerarsi sostanzialmente popolare e di pubblico interesse. E del resto, parlando dell’Italia, 300 aziende che trattano il settore, con ben 15 che vantano il privilegio di essere definite “grandi imprese” sono ormai una soglia importante non solo per la ricerca ma anche per l’economia. È comprensibile che il coinvolgimento sia sempre più largo.
Ma è solo l’effetto di quella che viene definita ambiguamente la space economy o l’alveo nasconde questioni più profonde?
Del tema se n’è parlato nei giorni scorsi alla Fondazione Marco Besso di Roma, per la presentazione dell’ultimo lavoro pubblicato da Marcello Spagnulo “Capitalismo stellare”.
Spagnulo è un esperto e il suo testo può rappresentare una guida efficace per chi parla o decide in materia di spazio. Studiarne non semplicemente le tecniche ma le opportune angolature potrebbe essere una grande opportunità per quei decisori che non hanno mai messo piede in una camera pulita -le officine ad ambienti controllati dove si costruiscono i satelliti- o non hanno mai partecipato con responsabilità ad una trattativa su rischi e vantaggi concernenti la firma di accordi internazionali. Da parte nostra, sia chiaro, contiamo che i nostri delegati siano sempre e comunque sufficientemente preparati prima di metter mano ad affari che possono cambiare il destino della nostra nazione. E solo così, noi che seguiamo e riportiamo dello spazio possiamo sentirci tranquilli di futuri ritorni economici e politici.
In realtà l’evoluzione del comparto sta comportando il varo di nuove strategie a cui lo Stato italiano, come gli omologhi esteri, deve impegnarsi ad investimenti sempre più consistenti per poter cooperare e competere.
E condividiamo dopotutto, come ha affermato Lucio Caracciolo nel corso della presentazione del libro di Spagnulo, che gli attori oggi sono in pratica gli stessi che decidono sulla Terra. E bisogna valutare questo aspetto, perché le orbite basse, con il loro affollamento stanno diventando un problema per il nostro pianeta. Non solo tecnologico ma anche politico. Perché le imprese dai cui impianti escono i satelliti che stanno saturando le regioni limitrofe all’atmosfera terrestre, non è chiaro fino a che punto seguano la filosofia del bene della collettività, dell’economia generale o del proprio interesse. E qui sarebbero necessari tutti gli approfondimenti che si allargano su una linea che va dai vantaggi, alla salvaguardia di beni comuni e di una governance che manca o che viene continuamente disattesa.
Torniamo al caso italiano, che è presente sul bouquet di offerta con prodotti che sono sullo stato dell’arte. In Italia, come in Europa ci sembra improbabile parlare di un modello capitalistico che si avvicini al business americano: mancano i grossi centri di ricerca e le decisioni sono troppo spesso spezzettate di logiche nazionalistiche piuttosto che da finalità collettive. Pur con forti investimenti in circolazione.
Ma poi alla fine, basta mettere solo più soldi? A parere di chi scrive, la parte finanziaria è una condizione necessaria ma non sufficiente alla costruzione di una risposta. Come abbiamo spesso ripetuto su Startmag, occorre puntare sul capitale umano in un’operazione che sia condotta a 360 gradi. E ci spieghiamo proprio con un esempio nazionale: le università italiane sfornano ottimi laureati in ingegneria. La testa cinta di alloro, ormai una tradizione che è stata rispolverata dai ragazzi che escono dalle facoltà, è la conclusione di un percorso impegnativo, irto di ostacoli ma perché un ingegnere diventi sostanzialmente operativo, ovvero sia non più un costo per chi l’assume ma una vera risorsa, occorrono anni: esperienza sul campo, partecipazione fattiva a programmi, impegno, studio e incentivi economici adeguati alla conoscenza, piuttosto che alle conoscenze di persone che occorrono per la scalata professionale. Chi non sta a queste regole del gioco -e spesso sono i migliori- va fuori dall’Italia.
Dopo il secondo giuramento davanti al Parlamento lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ha avuto peli sulla lingua: “Tanti, troppi giovani sono spesso costretti in lavori precari e sottopagati, quando non confinati in periferie esistenziali”. E lo stesso Capo dello Stato ha ribadito il concetto un paio di giorni fa all’assemblea annuale degli industriali: “Troppi giovani lasciano l’Italia per i salari troppo bassi”. Parole a nostro parere che meriterebbero una replica -o una considerazione!- da parte dell’esecutivo e degli organi datoriali.
Allora, bene venga che l’Italia è il terzo Paese contributore dell’Agenzia spaziale europea (Esa) e che sta impiegando in modo massiccio i fondi del Pnrr liberati dall’Europa ma poi le istituzioni o le amministrazioni devono far in modo di rimodulare la politica retributiva e spingere con la meritocrazia (altra leva, a meno della coercizione non esiste ancora) per costruire e tener salda una classe di giovani tra tecnici, scienziati e anche manovalanza qualificata in grado di rendere grande il nostro Paese. Con amarezza non ravvediamo altre forme di rinascita di uno Stato, che voglia essere più derivato sul capitalismo piuttosto che sul sociale, questo è da comprendere, ma che abbia la dignità e l’autorevolezza di potersi esprimere ai tavoli europei con la consapevolezza di guida piuttosto che di esecuzione.
Ha ragione l’europarlamentare Massimiliano Savini, relatore all’Europarlamento per il programma spaziale dell’Unione europea quando afferma che manca il ritmo nel Vecchio Continente. E fa un esempio: non si può gestire la strategia spaziale come quella agricola. Ma allora, non sarebbe finalmente il momento di rimodulare l’intera politica di azione per adeguarsi alla nuova corsa attivata dai signori dello spazio occidentali e dagli inseguitori asiatici?