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Lockdown

Perché è surreale il dibattito sull’app per il contact tracing

Che cosa pensa dell'app per il contact tracing l'imprenditore Peter Kruger

Oggi parliamo di app (ma prendetelo come esempio generale).

In Corea del Sud, l’app per il contact tracing (che è solo parte dello sforzo di contact tracing messo in campo dalle autorità in collaborazione con i sistemi sanitari regionali e migliaia di volontari) è stata lanciata lo scorso 11 febbraio, prima ancora che scoppiasse il focolaio di Daegu. A fine febbraio, avevano già altre due app, una per allertare i cittadini delle aree e dei tragitti a rischio, un’altra per i cittadini in isolamento. Le app sono andate attraverso varie release, come di consueto, per migliorarne l’efficacia e risolvere i problemi incontrati lungo la via. Ora si è arrivati al punto che, buona parte dei dati raccolti (in forma anonima) sono messi a disposizione di terze parti, con nuove app, appena rilasciate, che, in pochi giorni, sono state scaricate da milioni di utenti. Tutta roba ovvia. Nulla di fantascientifico. Cose rinomate: MVP, lean development, API, framework aperti a terze parti ecc. ecc. Problemi di privacy? Certo. Si risolvono, come tutti i problemi incontrati nello sviluppo di qualsiasi app.

Da noi, invece, ancora assistiamo a questo dibattito surreale animato da avvocati, cresciuti pensando che un’app sia come un disegno di legge, o da giornalisti, che non hanno manco realizzato una casetta lego in tutta la propria vita, o peggio dai soliti system integrators, sempre in prima linea quando si tratta di mungere un po’ di miliardi dalla stupidità della nostra classe politica (quando non a foraggiarla), tutti intenti a lanciare filippiche preventive su potenziali problemi di privacy da parte di app di cui non sappiamo neppure quale problema si presuma debbano risolvere (figuriamoci fornirci la soluzione). Gli stessi “grandi pensatori” che ci hanno regalato capolavori nazionali come la PEC e i crash del sito dell’INPS.

Non so voi, ma, per quanto fossi pessimista sui limiti della disfunzionalità sistemica del cosiddetto “Sistema Paese”, in fondo ci speravo. Ci contavo. E, invece, a 60 giorni dall’inizio di tutto questo casino (80 dalla dichiarazione di stato d’emergenza), ci ritroviamo ancora in questo stadio psicotico di imbecillità conclamata e generalizzata da parte della nostra cosiddetta classe dirigente (categoria ampia che non si limita certo solo ai politici).

La verità è che continuiamo a navigare al buio, senza un piano (non dico per la fase 2, ma neppure per la fase 1), in mancanza di trasparenza (continuiamo a pendere dalle labbra dei pochi dati che la Protezione Civile ci fornisce, per grazia ricevuta, mentre non sappiamo nulla dell’enorme mole di dati che viene raccolta a livello locale), seguendo questo presunto approccio “one size fits all” (come se il Molise fosse la Lombardia), in un processo di sistematico scaricabarile di responsabilità (da una commissione tecnico-scientifica di incompetenti conclamati, siamo passati a 40 task force con 1000 presunti esperti), ogni giorno distratti dal solito teatrino.

60 giorni. Quanti altri ancora così?

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