Portare al 2% del prodotto interno lordo la spesa nazionale per la difesa come nel 2014 fu deciso in sede Nato non sembra rappresentare la leva per il rilancio dell’industria europea del comparto. Sta accadendo, anzi, tutto il contrario. In particolare a causa della Germania. Eppure, come ha spiegato a Bruxelles in ottobre nel corso della seconda edizione della “European Defence & Security Conference” l’amministratore delegato di Leonardo (e presidente dell’ASD, l’organismo europeo che riunisce le associazioni nazionali delle imprese del settore) Alessandro Profumo, se tali fondi “saranno spesi al di fuori dell’Ue questo equivarrebbe a chiudere il mercato europeo per i prossimi venticinque anni. E senza una industria della difesa europea non avremo nemmeno una voce in capitolo sulla scena internazionale”.
Dopo una lunga stasi, Berlino sta diventando di gran lunga il maggior acquirente europeo (e tra i “big spender” mondiali) di prodotti della difesa con l’affermata volontà di portare a breve la sua spesa da 47 a 70 miliardi (appunto il 2% del suo Pil) e di aggiungere immediatamente 100 miliardi di spesa aggiuntiva. Ma la Germania sta rifornendosi perlopiù al supermercato d’oltre Atlantico, magari in cambio di maggiore libertà politica sul fronte dell’approvvigionamento energetico e dell’interscambio. Ha infatti già destinato il 40% dell’extra bilancio all’acquisto di prodotti Usa (a cominciare dagli aerei da combattimento Lockheed Martin F-35 e degli elicotteri da trasporto pesanti CH-47 F Boeing) e ora si è fatta capofila dell’ESSI, un progetto di scudo anti-missile che utilizza tecnologia Usa e israeliana, oltre che tedesca. Questo progetto archivierebbe, o perlomeno ne ridurrebbe in maniera consistente le potenzialità, il già avviato “Mamba” franco-italiano e di conseguenza ogni speranza di “autonomia strategica europea” in questo campo. Rafforzando nel contempo una tendenza che i vieppiù velleitari sogni di difesa europea volevano invertire.
Da indiscrezioni raccolte da Aeronautica & Difesa a Bruxelles risulterebbe che la spesa in armamenti degli Stati appartenenti all’Unione europea sarebbe assicurata da fornitori statunitensi per il 60/65% del totale e si rivelerebbe in crescita, anche a costo di penalizzare le industrie nazionali, spesso ostacolate dall’opposizione di partiti e movimenti perfino governativi, come proprio in Germania accade. Non solo. Le esportazioni dagli Usa dirette all’Unione europea sarebbero pari a otto volte i flussi dell’export in senso opposto. Numeri che allarmano le industrie del Vecchio Continente. “Il rullo compressore Usa è in marcia”, ha accusato il generale a riposo Jean-Marc Duquesne, delegato generale del Gicat, l’Associazione delle industrie francesi della difesa e della sicurezza terrestre. E dall’altra sponda del Reno il responsabile di Airbus Defence and Space, il tedesco Michael Schoellhorn, ha fatto presente che voler soddisfare a breve termine la richiesta di armamenti ed equipaggiamenti rischia di favorire produttori extra continentali minando l’eccellenza europea in questo settore strategico.
Tutto ciò impone obblighi al neonato governo italiano. Rimanere ad attendere le decisioni della presidente della Commissione europea, la tedesca Ursula von der Leyen, o peggio ancora sperare nell’esecutivo che scaturirà dalle elezioni per il Parlamento Ue nel 2023 potrebbe risultare molto pericoloso per la nostra industria. E ben dovrebbe saperlo il neo ministro Guido Crosetto (a proposito: auguri!).
Le strade sono obbligate. Giocoforza passano per l’intesa con la Francia e la Spagna. Ma per equilibrare l’asse è importante consolidare i rapporti con il Regno Unito. Nonostante gli strettissimi legami tra Londra e Washington i britannici, come dimostra la vicenda del programma “Tempest”, non rinunciano all’autonomia e alla loro industria. All’Italia il compito, non facile, di mettere assieme Francia e Regno Unito.
Pietro Romano