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Whatsapp

Perchè la Cina ha bloccato Whatsapp

In Cina sono consentite solo applicazioni che possono essere intercettate dal governo: e Whatsapp viene bloccato   Disservizi, problemi nella condivisione delle foto e dei video e poi il blocco totale. Parliamo di Whatsapp e di quanto ha deciso la Cina: Pechino ha bloccato il servizio di messaggistica istantaneo perchè i messaggi criptati sfuggono al…

In Cina sono consentite solo applicazioni che possono essere intercettate dal governo: e Whatsapp viene bloccato

 

Disservizi, problemi nella condivisione delle foto e dei video e poi il blocco totale. Parliamo di Whatsapp e di quanto ha deciso la Cina: Pechino ha bloccato il servizio di messaggistica istantaneo perchè i messaggi criptati sfuggono al controllo delle autorità.

Una mossa di cui può beneficiare WeChat, concorrente di Whatsapp e, soprattutto, servizio di messaggistica che piace al Governo cinese.

Il blocco di Whatsapp

La Cina ha bloccato Whatsapp. Dopo rallentamenti e disservizi, soprattutto per quanto riguardava la condivisione di fotografie e video, come evidenziato da alcune analisi pubblicate dal New York Times, Pechino ha deciso di bloccare completamente il famoso servizio di messaggistica, non permettendo agli utenti di inviare messaggi di testo.

whatsappLa questione è semplice: Whatsapp sfugge al controllo cinese. L’applicazione utilizza particolari protocolli per lo scambio dei dati. Con molta probabilità la Cina ha aggiornato il sistema (firewall) che in generale identifica e blocca parte del traffico online, per impedire l’accesso a social network, motori di ricerca e ai siti di opposizione e degli attivisti che diffondono notizie contro il governo.

Whatsapp è tra le vittime di questo sistema: in Cina è possibile l’utilizzo solo di applicazioni che possono essere intercettate dal governo cinese, come WeChat. WhatsApp, invece, controllata da Facebook (il social network è stato bloccato in Cina nel 2009), non consente il controllo.

E Wechat  ne beneficia

A beneficiare del blocco di Whatsapp è WeChat. L’applicazione conta 846 milioni di utenti attivi, che potrebbero rapidamente aumentare.

Wechat piace a Pechino: l’azienda censura tutte le notizie e i messaggi ritenuti sensibili e blocca l’invio di tutti i testi privati che contengono determinate parole.  Come racconta Bloomberg, gli utenti della piattaforma di messaggistica istantanea Wechat sono controllati e censurati e non possono sfuggire al sistema anche se lasciano la Cina o decidono di passare a un numero di telefono d’oltremare.

Secondo uno studio della University of Toronto Citizen Lab, gli account Wechat registrati con un numero di telefono cinese sono controllati in qualsiasi parte del mondo. Anche se cambiano numero (e mantengono lo stesso nome utente). Insomma, la Tencent Holdings Ltd. può espandere il servizio di messaggistica più popolare della Cina anche all’estero, pur rispettando i controlli governativi nazionali in materia di informazione.

“Negli ultimi anni, Wechat ha subito numerose pressioni normative”, si legge nel rapporto. “Le normative sempre più severe ci hanno portato a sospettare che le comunicazioni su Wechat possono essere monitorate.” E’ per questo che i ricercatori hanno testato 26.821 parole chiave che erano già state bloccate e censurate su altri siti web, tra cui Weibo Corp. e YY Inc Essi, scoprendo che ben 174 parole ed espressioni, come “Tibet libero” e “ISIS crisi” hanno innescato la censura. In pratica, se queste parole vengono rilevate dai server Wechat, in Cina, il messaggio non verrà inviato.

Non solo chat. La Cina censura anche le notizie

La censura, in Cina, non è certo una novità.  La Cyberspace Administration of China, l’ente statale di supervisione di internet, obbliga i più grandi portali web cinesi a non riportare più notizie originali. La Cina intende avere, come spiega Bloomberg, il pieno controllo delle informazioni che circolano online, censurando qualsiasi cosa che possa danneggiare l’immagine del partito comunista al potere.

I cittadini non hanno accesso a servizi come Gmail, Facebook o Twitter e i quotidiani sono costretti a scrivere notizie “approvate dal Governo”. Il compito dei media nazionali Cinesi non è quello di informare, ma di “aiutare a forgiare le ideologie e le linee del partito” attraverso un “alto livello di uniformità con il partito”, come ha spiegato il presidente cinese, Xi Jinping.

Anche Google, fin dal suo sbarco nel 2009, ha avuto diversi problemi: nel 2009 Big G è stato vittima di un imponente attacco informatico (partito molto probabilmente dall’interno del Paese) e nel 2010 ha deciso di trasferire tutti i server a Hong Kong, aprendo la strada all’ascesa di Baidu.

Cina censuraLe restrizioni hanno avuto importanti ricadute anche su alcuni dei siti web asiatici più visitati, come Sina, Sohu e Netease, che sono stati chiusi nel corso del 2016 e che dovranno pagare importanti multe per avere “seriamente violato” le regole di internet sui contenuti pubblicati e avere causato “enormi effetti negativi”.

In realtà bastava utilizzare un Virtual Private Network, o VPN, per bypassare la muraglia. L’industria informatica ne è sempre stata a conoscenza, chiudendo un occhio. Nel 2015, però, molti dei servizi VPN utilizzati nel paese hanno smesso di funzionare, bloccati da nuovi filtri sempre più potenti.

Dal 2018, però, le cose cambiano. E China Unicom, China Mobile e China Telecom, i tre principali provider cinesi, dovranno collaborare con il governo per impedire che cittadini (e visitatori stranieri) adoperino i Virtual Private Network per sfuggire alle maglie del Grande Firewall. Le telco dovranno implementare la nuova direttiva entro il primo febbraio del 2018.

La censura si fa cosa davvero seria, se si pensa che la quasi totalità degli utenti cinesi utilizza un contratto di uno dei tre operatori.

Dal blocco, forse, si salveranno le multinazionali che operano nel paese, le quali tuttavia dovranno registrare presso il ministero l’uso di Reti Private Virtuali nei propri uffici, rischiando così di facilitare controlli e intercettazioni delle informazioni e dei dati scambiati con le proprie sedi all’estero.

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