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Chatgpt

Perché il New York Times non vincerà facilmente contro ChatGpt e Microsoft

L’irritazione del New York Times contro ChatGpt (Microsoft) è comprensibile, ma le argomentazioni giuridiche scricchiolano. L'approfondimento di Laura Turini, avvocato, per la newsletter Appunti di Stefano Feltri

La notizia della causa promossa dal New York Times contro OpenAI, proprietaria di ChatGPT, e contro Microsoft, sua finanziatrice, è rimbalzata su tutte le testate giornalistiche. Anche i meno appassionati di tecnologia ne sono rimasti colpiti, forse per il nome illustre del New York Times, forse perché si sono sentiti difesi da un colosso in una battaglia contro l’intelligenza artificiale che, in molti, vedono come una minaccia. Eppure non è la prima causa subita da OpenAI e da Microsoft per gli stessi identici motivi che sono alla base dell’azione del New York Times. Contro OpenAI sono pendenti negli Stati Uniti altre tre cause, una contro Microsoft, promosse anche da un gruppo di autori come class action a difesa dei diritti di tutti gli artisti.

L’oggetto principale del contendere è sempre il fatto che OpenAI avrebbe addestrato il suo sistema copiando e elaborando, senza consenso e senza pagare i diritti, opere di terzi coperte da copyright e che genererebbe risposte in cui quelle opere sono in parte richiamate. Saremmo, quindi, di fronte a una contraffazione diretta da parte dei sistemi di intelligenza artificiale.

Tutto ciò che si sa di questa nuova causa, si apprende leggendo il ricorso del New York Times, datato 27 Dicembre 2023, che è l’unico al momento disponibile, dovendo ancora essere depositata la difesa di OpenAI. Nel corpo dell’atto il New York Times sostiene di investire molto per garantire ai propri lettori notizie approfondite e di alta qualità e di trovarsi, adesso, a subire una concorrenza sleale da parte di ChatGPT che fornisce agli utenti estratti e riassunti dei propri articoli. Afferma che ChatGPT opera in modo analogo a un motore di ricerca, ma lamenta che, a differenza di quello, offre risposte più articolate, testi più lunghi, elaborazioni soddisfacenti che non invitano il lettore ad andare a leggere l’articolo direttamente alla fonte, anche perché viene omesso il link al sito del quotidiano.

L’irritazione del New York Times è comprensibile, ma le argomentazioni giuridiche scricchiolano. La maggiore parte delle affermazioni sono basate, più che su fatti oggettivi, su un generico “on information and belief”. Il NYT cerca di dimostrare che tra i dati di addestramento ci siano i suoi articoli, e in numero ingente, ma le prove sono piuttosto scarse e tutte sostanzialmente indiziarie. Più convincente è la parte in cui i legali cercano di dimostrare che gli output offerti dall’intelligenza artificiale ripercorrono interi pezzi del NYT, ma, a ben vedere, o non viene specificato quale prompt (cioè quale istruzione) sia stato utilizzato per ottenere quelle risposte oppure i prompt sono stati impostati proprio perché venisse generato quel testo.

Inoltre, nelle risposte, spesso, ChatGPT cita il New York Times come fonte, analogamente a quanto fa un motore di ricerca, e questo aspetto, da un lato, viene contestato, da parte del NYT, come un uso illecito del marchio, ma dall’altro potrebbe offrire a OpenAI degli utili argomenti di difesa. Il fatto che il NYT, così gli altri che lo hanno preceduto, non possa provare in modo certo quali dati siano stati utilizzati per l’addestramento è normale, visto che OpenAI, e non solo lei, non lo dichiara.

NELLA SCATOLA NERA DI CHATGPT

I sistemi di intelligenza artificiale sono sostanzialmente tutti sistemi proprietari e nessuno sa esattamente come funzionano e quali siano i dataset di addestramento. OpenAI, all’inizio, era nata come sistema open source, ma non lo è più. Adesso è una realtà commerciale molto importante, nella quale gioca un ruolo primario proprio Microsoft, citata in giudizio per avere fornito a OpenAI la piattaforma su cui fare girare il suo sistema, oltre che per il fatto, di partecipare ai profitti di ChatGPT e quindi di porsi, anch’essa, in concorrenza con il NYT.

Come si legge nel ricorso, “Microsoft ha investito almeno 13 miliardi di dollari in OpenAI Global LLC (una delle società che fanno capo a OpenAI, ndr) in cambio dei quali Microsoft riceverà il 75 per cento dei profitti di quella società fino a quando il suo investimento non sarà ripagato, dopodiché Microsoft potrà ottenere una quota del 49 per cento della società stessa”.

GLI (ALTISSIMI) INTERESSI IN GIOCO

A fronte dei guadagni di OpenAI, che Secondo un report del 30 Agosto 2023 sta generando un fatturato di 80 milioni di dollari al mese, con la previsione di superare il miliardo di dollari nei prossimi 12 mesi, vi sono le perdite dal New York Times che sono di altrettanto rilievo. Nel ricorso il NYT lamenta che, se ChatGPT continua a fornire questi risultati, nessuno sarà più interessato a sottoscrivere l’abbonamento ad un giornale o a una rivista e neppure avrà interesse ad andare a leggere gli articoli messi a disposizione gratuitamente, facendo perdere tutte le entrate possibili agli editori, anche in termini di pubblicità e benefici indiretti.

Sul piano giuridico la partita è tutta da giocare, ma sul piano commerciale la posta in gioco è altissima. Non è un caso che prima di depositare il suo ricorso, il New York Times abbia cercato di trovare un accordo con OpenAI, senza riuscirci. Non si sa perché la trattativa sia fallita. Si sa solo che OpenAI si starebbe appellando al “faire use”, ritenendo che la sua attività sia lecita proprio sulla base di questa dottrina americana che consente di potere usare materiali protetti da copyright senza chiedere il consenso dell’autore quando ricorrono determinate condizioni e in particolare quando viene fatto un “uso trasformativo” del materiale protetto, utilizzato per scopi diversi da quelli originari.

Dovremo attendere qualche settimana prima di potere leggere la memoria difensiva di OpenAI, se ne può solo ipotizzare il contenuto sulla scorta dei casi precedenti in cui si è già difesa. Uno di quei casi presto sarà deciso e, anche se OpenAI ha validi argomenti a sostengo della sua posizione, non è escluso che i titolari dei diritti possano, alla fine, spuntarla, almeno in tribunale.

Fuori dalle aule, però, stiamo assistendo a un passaggio epocale, simile a quello vissuto vent’anni fa con l’avvento dei sistemi peer-to-peer che hanno scardinato il predominio delle majors. Anche allora le case discografiche hanno intrapreso battaglie legali, che spesso hanno vinto, ma il mercato alla fine ha avuto la meglio e imposto loro nuovi standard e nuove modalità di accesso alla musica, prima assolutamente impensabili.

L’intelligenza artificiale, nell’informazione, come in tanti, per non dire tutti, i campi del sapere e dell’industria sta cambiando il comportamento delle persone e orientando diversamente i loro bisogni. Per governare questo cambiamento, oltre a nuovi strumenti, serve una nuova mentalità. Nessuno nega che il lavoro debba sempre essere ricompensato, ma più che imporre vecchie gabelle, inapplicabili alle nuove tecnologie, conviene dare voce alla fantasia e immaginare nuovi modelli, anche collaborativi, che anziché alimentare vecchi monopoli, creino realtà diverse a beneficio di tutti.

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