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Internet

Come tutelare diritti e libertà in Rete. L’analisi del prof. Gambino

L'analisi di Alberto M. Gambino, Prorettore dell'Università Europea di Roma e Presidente dell'Accademia Italiana del Codice di Internet

Partiamo dal sistema normativo come tradizionalmente inteso. La conformazione giuridica degli ordinamenti “occidentali” ha sempre fatto perno su due grandi vicende. Quella delle libertà e quella che riguarda i diritti, da intendersi come diritti soggettivi, ossia quelle libertà che gli ordinamenti ritengono di giuridificare nel loro esercizio attraverso dei presìdi, di giurisdizione in particolare, quindi di tutela: il passaggio dalla libertà alla fase della tutela dei diritti, appunto.

Fino a una trentina d’anni fa i consumatori, in quanto tali, non erano titolari di diritti in senso stretto, nel senso che la loro libertà economica e consumeristica non era assistita da diritti, che – piuttosto – erano di fatto attribuiti alle imprese con riferimento al rispetto delle regole della concorrenza. I diritti dei consumatori si limitavano a quelli tipici di stampo civilistico nella loro veste di acquirenti; nessun diritto invece nella loro veste pubblicistica di attori del mercato (rinvio ad un mio lavoro di un quarto di secolo fa e, comunque, dello scorso millennio: La tutela del consumatore nel diritto della concorrenza: evoluzioni ed involuzioni legislative, anche alla luce del d. lgs. 25 gennaio 1992 in materia di pubblicità ingannevole, in Contratto e Impresa, 1992, p. 411ss.)

Questa è la dinamica di gran parte dei Paesi di civil law, in Italia con l’art. 2598 codice civile: atti di concorrenza sleale, dove l’interesse del consumatore poteva rientrare dalla finestra attraverso quelle fattispecie che implicavano la violazione della correttezza professionale, ma non era il consumatore che poteva recarsi dinnanzi ad un giudice bensì l’impresa che trascinava anche, eventualmente, l’interesse del consumatore, che una volta ristabilita la concorrenza violata, avrebbe di nuovo avuto più scelta, più prodotti e servizi davanti ai suoi occhi. Tant’è che l’art. 2601 c.c. era l’unica possibilità di legittimare una realtà associativa, ma la giurisprudenza lo ha sempre interpretato restrittivamente, legando l’azione ad interessi di natura professionale; la legittimazione diretta delle associazioni di consumatori sarebbe poi avvenuta, quasi settant’anni dopo con la class action, l’azione collettiva risarcitoria.

Questo è, in sintesi estrema, il quadro della nostra tradizione giuridica.

Dal punto di vista costituzionale molto si gioca sulla libertà di iniziativa economica – art. 41 Cost. – là dove il consumatore sta dentro l’endiadi dell’utile e del sociale (“utilità sociale”), che altro non significa che l’impresa può perseguire il suo utile o profitto purché non contrasti con l’interesse anche dei consumatori, complessivamente intesi.

Questo era il sistema de iure condito, prima ancora di una grande rivoluzione, che non è la rivoluzione di Internet, ma è stata la rivoluzione delle authorities.

La legge antitrust – in Italia siamo nel 1990 – ha introdotto la prospettiva che quell’interesse del consumatore – che non era un diritto azionabile direttamente – possa essere rappresentato anche autonomamente, disgiuntamente dall’interesse dell’impresa in concorrenza. Poi, soprattutto, negli anni successivi – nel 1992 con le pratiche commerciali scorrette (oggi si chiamano così, ma all’epoca era la pubblicità ingannevole) si è consentito al consumatore di segnalare messaggi promozionali decettivi così da difendere la sua libertà di scelta. Non è una vera legittimazione ad agire ma l’Antitrust comincia ad ascoltare il consumatore, assegnandogli prerogative che davanti all’autorità giudiziaria ordinaria non avevano cittadinanza alcuna.

Si gioca così una prima scommessa: non sembra sufficiente per il consumatore che i suoi interessi vengano rappresentati dall’impresa, secondo l’archetipo tradizionale dello schema “più concorrenza uguale più scelta di consumo”; assioma legato a opzioni e benefici da un punto di vista squisitamente economico, ma non della “qualità” della scelta, che piuttosto richiede un surplus informativo anche a discapito dell’interesse imprenditoriale dei concorrenti.

Con l’avvento dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (1997) si è via via perfezionata la percezione che l’interesse del consumatore non collimi con quello dell’impresa che reclama la violazione della concorrenza.

Arriviamo alla fase odierna dove si verifica un “ritorno”, forse un po’ meccanicistico, alla vecchia tesi che tanto più c’è concorrenza tanto più si fa l’interesse del consumatore. Lo zero rating è l’espressione massima di questo assioma. Il commissario Nicita ha rilevato che il consumatore ha interesse ad ottenere servizi “a costo zero” e questo non sarebbe uno scandalo anche se ciò andasse a creare un nocumento sull’impresa concorrente che, evidentemente, si vede depauperata di una fetta di mercato laddove quel servizio venga offerto sostanzialmente a titolo gratuito in un’economia di scala. In particolare, il tema si lega alle tecniche di gestione del traffico che consentono agli ISP di attribuire canali trasmissivi più veloci a determinati contenuti o a determinati soggetti, esponendo quindi la comunicazione online ad eventuali condotte discriminatorie, con le conseguenti problematiche che ne deriverebbero in ordine alla tutela non solo delle libertà fondamentali dei cittadini, ma anche della concorrenza tra i soggetti che offrono i propri servizi via Internet.

Nel quadro della responsabilità e delle relazioni contrattuali tra gli ISP e gli utenti il dibattito rientra nello scenario della c.d. neutralità della Rete (net neutrality) e registra la contrapposizione tra i sostenitori di un intervento regolamentare che obblighi gli operatori a garantire la non discriminazione, e coloro che invece ritengono necessario assicurare agli operatori la possibilità di differenziare il servizio reso e di essere per questo remunerati, considerando sufficiente l’intervento delle Autorità. Siamo dentro un mercato che sempre più sfugge alle regole tipiche del diritto privato.

L’AgCom con la sua rete “di prossimità” dei Corecom – sistema efficace che dà anche l’idea che il mercato si possa formare, creare, attraverso lo strumento negoziale – è un po’ l’archetipo sul quale si regolano i rapporti economici connessi al mercato digitale delle comunicazioni, come ha messo in luce con puntualità Maria Astone e, con riferimento alle specifiche competenze regolatrici, Ivana Nasti.

Eppure con la Net Neutrality la grande distinzione da sottolineare è ora tra l’accesso (negoziale) tecnico/tecnologico alla rete e l’accesso (libero) ai contenuti. Si tratta – ovviamente – di due scenari completamente diversi.

Simuliamo che oggi Google non esista. Potremmo comunque accedere alla rete? Ovviamente sì. Che cosa ha Google in più? La possibilità di indirizzarci su certi contenuti, selezionandoli; il che ci fa scartare altri motori di ricerca, meno efficaci. Vent’anni fa c’era Altavista. Poi dopo due anni è spuntato Yahoo! E poi Google, che era anche più friendly come utilizzo perché aveva la capacità di indicizzare subito quello che stavi cercando.

La posizione assunta sul tema dall’Unione Europea, espressa già nel pacchetto di direttive in materia di comunicazioni elettroniche, rispetto alle pratiche di zero rating non le vieta né espressamente le autorizza, ma vengono piuttosto ricondotte alla più ampia fattispecie degli accordi commerciali tra i fornitori di accesso a Internet e gli utenti finali, da valutate – secondo un approccio case-by-case – in relazione agli effetti che producono o hanno la potenzialità di produrre sul diritto degli utenti finali di accedere a un’Internet aperta.

La salvaguardia del diritto degli utenti di accedere ad una Internet aperta pone, del resto, quale necessario presupposto la salvaguardia in sé della caratteristica di “apertura” della rete, che la disciplina europea intende garantire ponendo l’obbligo per i fornitori di servizi di accesso ad Internet di trattare tutto il traffico allo stesso modo.

L’introduzione di tale obbligo sposta, dunque, l’ambito della verifica di legittimità delle pratiche commerciali e tecniche attuate dagli ISP, condizionandolo alla verifica dell’incidenza che tali pratiche hanno, in primo luogo, sui flussi di traffico trasportati e sui servizi in rete, quindi, in definitiva, sui soggetti che rendono tali contenuti e servizi disponibili. Si rifugge, dunque, dall’idea che il mercato si crei in forza di piccoli-grandi monopoli tecnologici dove chi arriva prima ed ha la capacità di conquistare quel settore potrebbe – se ha capacità di innovazione in prospettiva- bloccare l’accesso di altri soggetti. Tali pratiche non risultano, però, vietate in termini assoluti, ma, piuttosto, sono ammesse ove riscontrabile una prova di “ragionevolezza”. Il compito di valutare la legittimità di tali pratiche è rimesso all’Agcom.

Quando Antonio Nicita fa, incidentalmente, accenno alla trasparenza, soprattutto al pluralismo, significa che il tema non è più soltanto l’interesse del consumatore di stampo economico; con le tecnologie la filiera dell’offerta in parte è strumento commerciale ma in parte è strumento formidabile di formazione delle opinioni. E il tema oggi è proprio questo. Da un lato c’è l’operatore libero, che rispetta le regole, che intraprende la sua iniziativa economica e che, nella correttezza e lealtà professionale, mette tutto il suo afflato imprenditoriale per essere il più apprezzato sul mercato. Dall’altro, c’è l’interesse dell’utente consumatore, che però – ed è qui la seconda rivoluzione – in uno scenario tecnologicamente avanzato e attrezzato non è più un soggetto “passivo”, che ascolta, guarda l’offerta, cerca, decide. È un soggetto che direttamente e indirettamente contribuisce ai processi che consentono alle imprese di attestarsi in una posizione di supremazia in termini concorrenziali.

Si tratta di un passaggio cruciale. Il consumatore non è più solo destinatario dell’offerta ma – spesso inconsapevolmente – fattore del successo delle imprese sul mercato di riferimento.

In questo scenario, ci troviamo oggi in un contesto unico dove la libertà economica è strettamente connessa anche con una libertà di fare e ricevere informazione. Poniamo attenzione a questo profilo perché qui ci sono i big data. Quando quella quota di informazione che riguarda noi stessi, e che a noi tutto sommato è indifferente dal punto di vista economico, determina nel complesso il lucro di multinazionali importanti che ricollocano le pagine pubblicitarie a seconda delle scelte degli utenti – prevedibili proprio attraverso la registrazione dei loro dati – allora si crea una sorta di invidia sociale da parte del “povero” utente consumatore che vede alcuni tratti della sua identità accaparrati da soggetti che ne fanno lucro.

Da un punto di vista giuridico questa situazione non è immediatamente disciplinabile con un contratto. Tant’è vero che si discute se il consenso, ogniqualvolta lo cediamo, sia effettivamente un consenso negoziale o una sorta di autorizzazione a disporre di alcuni elementi identificativi.

Dentro questo scenario, allora è davvero corretto parlare di tutela degli utenti vs. libertà degli operatori? O forse dovremmo invertire alcuni temi e parlare di libertà degli utenti e tutela degli operatori?

Gli operatori si muovono, infatti, dentro regole e prassi di mercato su cui si riflette un interesse pubblico di stampo concorrenziale già a livello europeo. Traggono quindi tutela nell’orizzonte del rispetto delle regole del gioco competitivo. Al consumatore invece appare angusta una prospettiva di tutela ancorata alle sole fattispecie negoziali o prenegoziali; ne andrebbe ridisegnata una fisionomia – in termini di cittadinanza – incardinata sulla sua sfera di libertà che appunto non è più soltanto di matrice economica. Occorre, neanche troppo metaforicamente, aprire la cassetta degli attrezzi regolativi per adattarli all’obiettivo della trasparenza e controllo sui processi sottesi, perché si possa garantire una competizione fair delle imprese nell’orizzonte imprescindibile della missione europea della protezione di un consumatore-cittadino e non più cittadino-consumatore; endiadi questa che vuole segnalare la pervasività della matrice economica degli attori che governano la rete, fattore di rischio al travalicamento dei limiti dei diritti di matrice pubblicistico-costituzionale e/o universale. Internet e tecnologie digitali permettono di trasmettere e mettere in circolazione idee e informazioni che possono determinare forme di disinformazione e di propaganda. Sul punto occorre segnalare che proprio l’Agcom ha rilevato la sussistenza di fenomeni patologici quali quello delle cosiddette fake news, e più in generale della disinformazione veicolata sempre più spesso attraverso le nuove piattaforme online. Fake news non è solo la notizia totalmente o parzialmente falsa, che presenta i connotati tipici della fraudolenza, ma anche notizie errate perché imprecise, distorte, incomplete o non ben documentate.

Occorre, d’altro lato, non limitare l’accesso o la circolazione di dati sulla base di algoritmi o altri meccanismi automatici di riconoscimento e rimozione, laddove si tratti di misure non trasparenti che possano arbitrariamente limitare la libera diffusione di idee e notizie in rete.

È necessaria una maggiore possibilità di accedere alla logica sottesa al funzionamento degli algoritmi stessi, un maggiore controllo circa la qualità dei dati da questi elaborati e, inoltre, una maggiore vigilanza sugli scopi perseguiti (ergo gli output che questi saranno chiamati a perseguire).

I big data e la loro analisi sono l’anello debole di questo profilo di vulnerabilità del consumatore, che si fa cittadino; qui sì c’è il discorso di ristabilire fino in fondo la libertà degli utenti che navigano in rete. E qui rileva ancora più il ruolo svolto dall’Agcom e dei Corecom in ragione dei loro poteri istituzionali in materia di promozione del pluralismo informativo.

(analisi pubblicata sul sito Dimt)

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