La decisione della Commissione europea di infliggere a X una multa da 120 milioni di euro per la violazione degli obblighi di trasparenza previsti dal Digital Services Act (Dsa) ha provocato una dura reazione di Elon Musk dagli Stati Uniti. E dalla Casa Bianca è arrivata l’accusa all’Ue di “difendere la censura”, mentre il segretario di Stato Marco Rubio ha definito il provvedimento “un attacco a tutte le piattaforme tecnologiche americane e al popolo americano”.
L’episodio rappresenta la manifestazione visibile di un confronto più profondo: uno scontro tra modelli regolatori che oppone Usa e Ue sul ruolo delle piattaforme digitali e sui limiti dell’intervento pubblico.
Nelle democrazie liberali la libertà di espressione è un principio cardine, fondamento della legittimità politica; ma nell’era digitale il dibattito pubblico non si sviluppa più attraverso norme interne e decisioni giudiziarie. Si svolge in un sistema dominato da algoritmi opachi, piattaforme globali e regole che travalicano i confini nazionali.
È un’architettura che può ampliare la disinformazione, influire sulla formazione dell’opinione pubblica e generare rischi sistemici nuovi.
Di fronte a questo scenario, Stati Uniti e Unione Europea hanno adottato approcci distinti, coerenti con le rispettive tradizioni giuridiche e politiche.
Negli Usa, il riferimento resta il Primo emendamento, affiancato dalla Sezione 230 del Communications Decency Act, che tutela piattaforme e utenti, limitando l’intervento dello Stato. È un impianto che riflette una cultura liberal-progressista, convinta che la libertà sia il miglior antidoto agli abusi, ma che in un contesto di forte polarizzazione mostra limiti evidenti: il web diventa terreno fertile per campagne d’odio, fake news e manipolazioni organizzate.
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha trasformato la distanza normativa tra i due continenti in una questione geopolitica.
A Washington cresce il sospetto che il Digital Services Act non sia solo uno strumento regolatorio, ma un mezzo capace di intaccare il predominio tecnologico statunitense, colpire economicamente le Big Tech e influenzare il confronto politico. Il dipartimento di Stato ha definito la legge europea “potenzialmente censoria”, invitando i propri diplomatici in Europa a contestarne l’attuazione e ventilando sanzioni contro i funzionari di Bruxelles coinvolti nei procedimenti.
In Europa prevale invece una visione regolatoria che vede nel Dsa nuovo pilastro della governance digitale. La legge impone obblighi di trasparenza e responsabilità ai grandi operatori – da Meta a X, fino a TikTok – e prevede la rimozione di contenuti illegali in qualunque Stato membro.
L’obiettivo dichiarato è salvaguardare l’integrità del dibattito democratico, riducendo i rischi sistemici generati da contenuti dannosi o falsi.
Negli ultimi mesi Bruxelles ha confermato questa linea, e la Corte di giustizia dell’Ue ha riconosciuto agli utenti il diritto di chiedere risarcimenti quando le piattaforme violano tali obblighi.
La tensione crescente è emersa nel confronto politico. Jim Jordan, deputato repubblicano e presidente della commissione Giustizia della Camera, considera il DSA una minaccia diretta alla libertà di espressione. Ha incalzato Henna Virkkunen, vicepresidente della Commissione europea, accusandola di sostenere norme ostili agli interessi americani. Non si è limitato alla retorica: ha inviato lettere ai vertici di Alphabet, Amazon, Apple, Meta, Microsoft, TikTok e X, richiedendo documenti sulle comunicazioni con Bruxelles e ipotizzando pressioni europee per modificare le politiche sui contenuti.
Lo scontro era iniziato già prima delle ultime presidenziali, con Washington e Bruxelles in disaccordo sul ruolo delle piattaforme nella gestione dei contenuti online. Il quadro si è complicato con l’apertura da parte della Commissione europea di indagini nei confronti di quasi tutte le aziende tecnologiche statunitensi, accusate di non rispettare le regole europee e potenzialmente esposte a sanzioni.
L’Unione europea respinge le accuse di parzialità, sostenendo che il DSA sia uno strumento di trasparenza valido per tutte le società europee, americane o cinesi. Non a caso, le decisioni più recenti hanno riguardato anche AliExpress, TikTok e Temu, piattaforme asiatiche.
Un dato fornito da Henna Virkkunen contribuisce a ribaltare la narrativa statunitense: tra il 2023 e il settembre 2024, il 96% delle rimozioni di contenuti è stato deciso autonomamente dalle piattaforme, spesso sulla base di regole interne più restrittive di quelle previste dal DSA.
In altre parole, nella maggior parte dei casi non sono i governi a intervenire, ma le stesse aziende, guidate da interessi commerciali, pressioni politiche e strategie reputazionali.
Di qui una considerazione decisiva: la libertà di espressione non è solo un questione giuridica, ma anche culturale. Contenuti legali e socialmente accettati in Europa, dal nudo artistico al dibattito sull’eutanasia, vengono rimossi perché considerati controversi e non conformi alle community guidelines, influenzate da una sensibilità più conservatrice. Questa divergenza dimostra che la sovranità digitale riguarda non solo le leggi, ma anche i valori che plasmano algoritmi e politiche aziendali.
Il Dsa è oggi il simbolo del confronto tra due modelli di democrazia: da un lato, la libertà quasi assoluta del paradigma americano; dall’altro la regolamentazione preventiva tipica dell’Europa. La sfida, per entrambe le sponde dell’Atlantico, è trovare un equilibrio che garantisca trasparenza, responsabilità e tutela dei diritti fondamentali senza scivolare né nell’anarchia digitale né nella sorveglianza statale.
In ultima analisi, la posta in gioco supera il destino delle Big Tech: riguarda il modello di società che si vuole costruire e i valori che si intendono difendere.
Nella contesa tra Washington e Bruxelles si decide anche il futuro della democrazia nel XXI secolo.




