Cos’è il metaverso? Se dovessimo definirlo in base ai numerosi resoconti giornalistici delle novità tecnologiche presentate all’ultimo Consumer Electronic Show – il Ces – di Las Vegas (falcidiato dalle assenze, ma pur sempre agli onori della cronaca), potremmo dire che si tratta di una parola. Affascinante, suggestiva, persino con risonanze filosofiche; diffusa, ripetuta, persino familiare ormai. Eppure, sarebbe difficile assegnarle una consistenza oltre le innumerevoli occorrenze nei comunicati stampa delle aziende produttrici di gadget più o meno essenziali alla nostra vita futura.
Certo, alla fiera dell’elettronica più famosa del mondo (anche se a presenze ridotte a quasi un quarto rispetto ai tempi d’oro, causa pandemia) non sono mancati i visori di ultima generazione per la realtà aumentata e per quella virtuale, che però nella versione originaria non sono comparsi per la prima volta quest’anno, bensì dieci anni fa (dieci!). Le variazioni sul tema — una per tutte, le tute equipaggiate con sensori diffusi per simulare le sensazioni dell’avatar (come quelle di Owo, o Shiftall) — non sfuggono alla regola, che ne fa in massima parte strumenti proposti da produttori di hardware e software per i videogiochi (Sony e Nvidia in primo luogo). Se in qualche caso il metaverso ha varcato la soglia delle piattaforme ludiche, è stato solo (ad esempio nel caso di Samsung) come canale di marketing, per trasformarsi in una vetrina di prodotti interattiva e virtuale — innovativa, divertente, senz’altro, ma pur sempre una vetrina. Tutto il resto si ferma, al momento, allo stadio di concept, prodotti sperimentali in cerca d’autore.
O meglio, di utilizzatore: perché il punto sta proprio qui. Dietro i sempre più sofisticati gadget non si intravede ancora alcuna idea delle situazioni d’uso: come da manuale, progettando nuove tecnologie ci si preoccupa principalmente delle funzionalità, e poco — o nulla — degli scenari effettivi in cui potranno essere utilizzate, dei problemi che il loro utilizzo potrebbe risolvere o dei desideri che potrebbe esaudire. Piuttosto che concentrarsi sulle “affordances” di questi oggetti e sistemi converrebbe focalizzarsi insomma sull’esperienza delle persone, sulle ragioni per le quali — al di là della curiosità, o del lifestyle, o della passione per l’innovazione — dovrebbero decidere di accoglierli nelle loro esistenze. Un’idea, non una parola; e un’idea di vita, non di tecnologia.