skip to Main Content

L’economia di ChatGpt, cosa succede negli Stati Uniti e in Europa

Estratto dal libro L’economia di ChatGPT tra false paure e veri rischi di Stefano Da Empoli, edito da Egea

 

Finora l’Europa, o per meglio dire l’Unione europea, è stata praticamente assente da questa narrazione. Nessuno che abbia un’idea decente di quello che sta accadendo crede che il Vecchio Continente, con l’eccezione del Regno Unito, abbia qualcosa da dire di tecnologicamente significativo nel campo dell’IA, almeno di quella generativa, nei prossimi mesi e anni (e forse decenni), nonostante molti degli scienziati ai quali sono da attribuire i contributi più significativi degli ultimi quindici anni siano nati e in molti casi educati da questa parte dell’Atlantico. Un paradosso che dovrebbe ogni sera agitare il sonno di presidenti, primi ministri, cancellieri, commissari, ministri ma che non sembra interessare praticamente a nessuno. La rassegnazione di giocare un campionato di serie B, lasciando ad altri le grandi emozioni degli stadi pieni di folla dove realizzare imprese memorabili, sembra essere inesorabilmente calata come un dato di fatto che non può essere cambiato. O forse sì, magari per un improvviso colpo di fortuna che possa riportarci come in un sogno al centro del palcoscenico.

Eppure non erano queste le premesse della strategia che la Commissione europea ha pubblicato nel 2018 con l’obiettivo di far recuperare all’Europa il tempo perduto. Perché in effetti già allora il ritardo era evidente. E non era solo un ritardo tecnologico ma anche politico. Per esempio, nella Strategia per il mercato unico digitale in Europa del maggio 2015, il tema era totalmente assente, anche se venivano previste azioni su temi correlati come i dati e il cloud. In realtà, a questo disinteresse a livello europeo ha concorso quello degli Stati membri, che hanno tardato a comprendere appieno la rilevanza dell’IA, nonché una residua reticenza nel mettere le questioni industriali sul tavolo comune di Bruxelles.

Nel 2017 ci sono stati dei primi segnali di risveglio, complici le mosse di Stati Uniti e Cina, con quest’ultima che, dopo l’umiliazione inflitta da AlphaGo, licenziò la sua strategia nella quale dichiarava esplicitamente di voler diventare la nazione leader nel mondo entro il 2030. Nella sua revisione intermedia della Strategia per il mercato unico digitale, pubblicata nel maggio del 2017, la Commissione ha finalmente sottolineato l’importanza di rafforzare le politiche scientifiche e industriali dell’Europa, nonché le startup innovative, per acquisire una posizione di leadership nello sviluppo delle tecnologie, piattaforme e applicazioni di IA.
Ma la svolta si è consolidata l’anno successivo. Il 10 aprile 2018 24 Stati membri e la Norvegia hanno firmato una dichiarazione di cooperazione sull’IA, approvata dal Consiglio europeo a giugno 2018. Gli Stati membri hanno convenuto di lavorare insieme sulle questioni più importanti sollevate dall’IA, per garantire la competitività dell’Europa nella ricerca e nella diffusione delle tecnologie e affrontare questioni sociali, economiche, etiche e legali. Due settimane dopo, il 25 aprile 2018, rispondendo alle sollecitazioni provenienti non solo dal Parlamento ma anche dal Consiglio europeo dell’ottobre 2017, la Commissione europea ha presentato la sua strategia con la Comunicazione L’intelligenza artificiale per l’Europa. Il documento, coinciso ma onnicomprensivo, riconosceva una situazione competitiva internazionale caratterizzata da un forte gap negli investimenti rispetto agli USA e all’Asia (anche se a mio modo divedere non esaminava fino in fondo le cause di questo distacco, in parte importante da attribuire alla mancanza di grandi player digitali e alle scarse capacità di trasferimento tecnologico). La Comunicazione indicava un’ampia gamma di misure, dall’aumento degli investimenti pubblici e privati (e un loro maggiore coordinamento a livello europeo) alla creazione di uno spazio europeo dei dati, dal tema della formazione e dell’educazione alle questioni giuridiche ed etiche, da trasformare in una leva competitiva per l’UE.

Forse ancora più importante per il tentativo di ingegnerizzare il lavoro congiunto che Commissione e Stati membri avrebbero dovuto svolgere negli anni successivi fu però, sempre nel 2018, il Piano Coordinato sull’IA, pubblicato il 7 dicembre, che descriveva in dettaglio le azioni da avviare nel 2019-2020, preparando il terreno per le attività da svolgere nell’attuale quadro finanziario pluriennale (2021-2027). Tra l’altro si prevedeva che il piano fosse rivisto e aggiornato annualmente, di comune accordo tra Bruxelles e le capitali nazionali. Considerando che solo cinque Stati membri avevano già adottato una strategia nazionale in materia di IA (Francia, Finlandia, Svezia, Regno Unito e Germania), questa prima edizione era particolarmente rilevante perché forniva un quadro strategico per quelle ancora da redigere, richiedendone l’invio entro la metà del 2019. Per quanto riguarda gli investimenti, si prevedeva di poter raggiungere 20 miliardi di euro all’anno nell’arco dell’attuale decennio, di cui 7 miliardi di provenienza pubblica (almeno un miliardo dalle istituzioni UE, il resto dagli Stati membri), un obiettivo che fin dall’inizio si poteva ritenere piuttosto ambizioso dato che l’Europa, a differenza di Stati Uniti e Cina, non aveva (e tuttora non ha) grandi player digitali. Occorreva poi che i singoli Stati membri mettessero sul tavolo risorse non indifferenti: basti pensare che Germania e Francia, che complessivamente pesavano sull’economia UE prima della Brexit per circa il 36% e successivamente per circa il 43%6, si erano impegnate nelle loro strategie (uscite entrambe nel 2018) a investire rispettivamente 3 miliardi in sette anni e 1,5 miliardi in cinque anni. Si stava dunque parlando complessivamente di meno di 800 milioni di euro all’anno di fondi pubblici da parte delle due principali economie europee (ai quali ovviamente aggiungere la componente privata). Difficile immaginare che con gli altri Stati membri si potesse riuscire ad arrivare nel giro di pochi anni alla cifra complessiva auspicata dalla Commissione. E neppure ad avvicinarvisi, a meno che i portafogli di Berlino e Parigi, insieme a quelli delle altre capitali, si fossero aperti ben più generosamente di quanto non fosse stato inizialmente annunciato.

Il successivo rapporto del Gruppo di esperti di alto livello nominati dalla Commissione europea, pubblicato il 26 giugno del 2019, ripercorre in maggior dettaglio quanto già evidenziato dalle due comunicazioni della Commissione del 2018 (e dai relativi allegati), raccomandando che i centri di eccellenza e le reti di ricerca previste raggiungessero una massa critica adeguata e si specializzassero (per evitare eccessive duplicazioni). A questo scopo, venivano anche invocate correttamente alleanze multi-stakeholder in filoni specifici dell’IA per creare ecosistemi nei quali potessero fiorire iniziative di alto livello. Importante anche l’accenno al public procurement, strumento che l’Europa non ha mai saputo usare in maniera strategica come hanno fatto invece altri Paesi, dalla Cina agli Stati Uniti. Naturalmente il focus di questi documenti non era solamente sulla ricerca e lo sviluppo di prodotti di IA ma anche sull’adozione da parte dei cittadini e soprattutto delle imprese – che nell’IA hanno una grande occasione per diventare più competitive, dotandosi delle risorse necessarie e adottando gli opportuni cambiamenti organizzativi, con il dovuto accompagnamento di istituzioni, associazioni d’impresa ma più in generale di tutti gli attori rilevanti (università, enti di ricerca, organizzazioni sindacali, giornalisti, opinion leader ecc.).

Questa impostazione complessiva, portata avanti dalla Commissione, sostenuta da Parlamento e Consiglio, e ulteriormente arricchita dal gruppo di esperti di alto livello, sembrava concettualmente corretta. Mancavano però almeno due elementi importanti: un cronoprogramma del take-up degli investimenti (quantomeno di quelli pubblici, europei e statali), insieme a un meccanismo di monitoraggio sufficientemente robusto per controllare che le tempistiche fossero rispettate, nonché un istituto di ricerca europeo che consentisse all’Europa di raggiungere una massa critica adeguata nei principali filoni dell’IA – non per sostituirsi alle tante micro-eccellenze disperse tra università e centri di ricerca ma per aggiungere forza propulsiva e provare a svolgere un ruolo di effettivo coordinamento intra-europeo (e anche sovra-europeo), in stretto contatto con il settore privato. Inoltre, aspetto altrettanto importante, un istituto europeo di eccellenza avrebbe potuto risultare attrattivo per i tanti scienziati europei e non europei che avevano deciso di lavorare negli USA, Canada, Regno Unito, Svizzera e altri Paesi extra-UE e anche per i tanti giovani appena usciti dall’università che, puntando a lavorare su ricerche di frontiera, avrebbero preferito farlo in un centro europeo di ricerca di eccellenza.

Nel febbraio del 2020, dopo che l’anno prima si era esaurito il lavoro svolto dal gruppo di esperti e a pochi mesi dall’insediamento della nuova Commissione, è arrivato il Libro bianco sull’IA, il biglietto da visita del collegio presieduto da Ursula von der Leyen. Il sottotitolo (Un approccio europeo all’eccellenza e alla fiducia) era particolarmente evocativo e al tempo stesso confermava le ambizioni dei documenti precedenti, gettando la base per attuarli con proposte legislative e altri atti di policy. Nella premessa iniziale si leggeva che «la Commissione è impegnata a favorire scoperte scientifiche, a preservare la leadership tecnologica dell’UE e ad assicurare che le nuove tecnologie siano al servizio di tutti gli europei».

Dopo aver passato in rassegna alcuni punti di forza del vecchio continente nella produzione e nella ricerca, il documento notava che «gli investimenti in ricerca e innovazione in Europa rappresentano ancora una frazione degli investimenti pubblici e privati in altre regioni del mondo. Circa 3,2 miliardi di euro sono stati investiti in IA in Europa nel 2016, rispetto a circa 12,1 miliardi in Nord America e 6,5 miliardi in Asia. In risposta, l’Europa ha bisogno di aumentare significativamente i suoi livelli di investimento. Il “Piano Coordinato sull’IA” sviluppato dagli Stati membri si sta dimostrando un buon punto di partenza per costruire una cooperazione più stretta sull’IA in Europa e per creare sinergie per massimizzare gli investimenti nella catena del valore dell’IA»10. Molto se non quasi tutto condivisibile, anche se naturalmente conta molto come si spende oltre al quanto. Ma quest’ultimo profilo appare inevitabilmente una condizione necessaria, a fronte delle enormi risorse private e pubbliche messe in campo dai Paesi più avanzati.

Goodbye, Brussels effect?

Come si può ben dedurre da queste brevi note su quanto è accaduto di recente e su quanto potrebbe accadere a breve negli Stati Uniti, è indubbio che l’irrompere dell’IA generativa abbia accelerato un processo di convergenza già in atto tra le due sponde dell’Atlantico. Peraltro, l’amministrazione Biden sta lavorando alacremente anche a livello internazionale, in particolare all’interno del G7, per accrescere la collaborazione su questi temi e identificare principi e regole comuni (almeno ai Paesi che condividono gli stessi valori democratici). Questa è certamente una buona notizia perché si può far fronte a molti dei rischi dell’IA solo con azioni concertate a livello internazionale (e a questo proposito va bene cercare forme di engagement rafforzato tra Paesi like-minded ma sarebbe un terribile errore non perseguire il dialogo anche con tutti gli altri, a partire dalla Cina, sicuramente il Paese con l’IA più avanzata tra quel-
li non democratici).

Tuttavia, una volta accolto positivamente il neoattivismo statunitense, che probabilmente sarà confermato da qualsiasi presidente siederà alla Casa Bianca nel gennaio 2025, non può sfuggire che qualora gli Stati Uniti – che, ricordiamolo, sono oggi più che mai il Paese leader tecnologico ed economico dell’IA, primato ulteriormente consolidato grazie all’IA generativa – si dotino di una strategia nazionale e di una legge paragonabile al nostro AI Act, i sogni di «Brussels effect» coltivati da noi europei andrebbero a farsi benedire o quantomeno sarebbero messi subito in discussione, prima ancora che le regole europee possano sperare di essere recepite da qualche altro Paese. Questo naturalmente non vuol dire che l’Europa non debba continuare il suo percorso e fermarsi a metà strada. O attendere il proprio partner transatlantico. Questa possibilità dovrebbe però servire ai decisori UE come monito in due direzioni diverse ma complementari: dare adeguato spazio all’innovazione nell’AI Act, minimizzandone i costi, in particolare per le startup di oggi e di domani, e riprendere le redini del Piano coordinato sull’AI che avrebbe dovuto appunto coordinare e allo stesso tempo monitorare gli investimenti pubblici e privati a livello europeo (ma che di fatto è un meccanismo piuttosto spuntato, come abbiamo provato a dimostrare nelle pagine precedenti). Senza un deciso colpo di acceleratore su questi due aspetti, la collaborazione tra i partner transatlantici rischia di partire profondamente sbilanciata, con orizzonti di gloria da questa parte dell’Atlantico tutt’al più limitati a pochi sporadici successi o, ancora peggio, ai tanti connazionali protagonisti della rivoluzione in atto dall’altra parte dell’oceano.

Back To Top